Condivido una serie di post che ho scritto in occasione della quaresima 2021 per i portali social della Diocesi di Milano. Il tema che mi era stato chiesto di approfondire attraverso sette post, da pubblicare uno per ciascun giorno della settimana, era la conversione. Ne è uscito questo:

Primo giorno

Ciao, sono Dio 😎.
Perché mi guardi strano? Sono Dio. Sì, con la D maiuscola.
Esatto, proprio lui! Il creatore del cielo e della terra, il principio e la fine, l’onnipotente… e tutto il resto. Sono io, Dio!
Che dici? Non ti aspettavi di trovarmi qui? A dirla tutta neanch’io, ma sai, i tempi corrono… di roveti da ardere 🔥 ce n’è sempre meno, gli angeli 👼 sono passati di moda, mi sono dovuto adeguare…
Hai ragione comunque, di solito me ne sto più sulle mie… a ‘sto giro però faccio un’eccezione. C’è una cosa di cui ti vorrei parlare, sì sì, proprio a te! Una parola che, sono sicuro, appena te la dico farai un salto sulla sedia: CONVERSIONE!
Visto? No, Tranquillo – o tranquilla (sai, di solito parlo con gli angeli ed è una gran fatica per me declinare il maschile e il femminile, so che siete diventati permalosetti al riguardo ma non volermene se mi dimentico…) – non ho in mente di scatenare il diluvio 🌧️. Nemmeno di mandare cavallette 🦗, rane 🐸 o altra robaccia simile. Perché mi pensi sempre come uno che se ne sta lì a pretendere cose col fucile puntato?
CONVERSIONE non è una minaccia, CONVERSIONE è… un’occasione! Ma ti vedo un po’ stranito, hai la faccia di uno che ha bisogno di schiarirsi un po’ le idee…  “Vieni e seguimi” questa settimana su questi canali, ci sarà da convertirsi!

Secondo giorno

Ciao, sono Dio 😎.
Sì, è tutto vero, non era un’allucinazione! Se scrolli i post di questa pagina trovi ancora il mio di ieri che ti ha tanto destabilizzato…
Ricordi la parola? CONVERSIONE! Dai, non fare così, c’è di peggio sai! No, rasserenati, userò metodi meno cruenti stavolta. Nessuna caduta da cavallo 🏇, promesso! Nemmeno pensieri suicidi. Con l’Innominato 🙊 mi sono fatto prendere un po’ la mano, ma sarò più prudente con te, davvero.
Comunque sono abituato a questa diffidenza quando pronuncio la parola CONVERSIONE. È incredibile sai: finché si tratta di trovarsi insieme, scambiare quattro chiacchere, una bella messa concelebrata per il clero, un bel rosario con gli anziani 👵🏻, un bel raduno per i ragazzi, un bell’aperitivo 🥂 con gli adulti – in oratorio o via Zoom non fa grande differenza – c’è il pienone! Ma appena pronuncio quelle undici lettere fatidiche o qualcosa di simile, VIA, si dileguano tutti!
Ovviamente lo so che è una facciata, che la maggior parte della gente, anche se apparentemente fugge la CONVERSIONE come la peste 😱, dentro di sé ci lavora su mica male. Lo so perché – ma non dirlo in giro – sono io che supervisiono il cantiere. È come un motore sai, ce l’hai dentro e gira, gira, gira … anche mentre dormi… Prende sogni, lacrime, parole… impasta tutto insieme… è il motore della CONVERSIONE!
Beh, che fai ora? Smetti di guardarmi inebetito. Piuttosto, dì un po’: com’è messo il tuo motore?

Terzo giorno

Ciao, sono Dio 😎 e ti chiederei una cortesia…
BASTA PER FAVORE! 🙏
Lo so, hai ragione, sono stato io ieri a chiederti di parlarmi di te, ma con questo non intendevo spronarti a riversarmi addosso tutti i mali della tua vita 😱 (che peraltro – essendo onnisciente – già conosco discretamente bene, non credi?).
Invece niente, sei partito in quarta a raccontarmi tutti i tuoi problemi insormontabili, tutte le cose che vorresti convertire ma proprio non riesci (qui peraltro c’è una precisazione da fare ☝️: stiamo parlando della TUA CONVERSIONE, non di quella di tuo marito, tua suocera, tuo figlio, tuo cugino, tua sorella, tua nonna… ci siamo capiti?)… e le ferite che ti porti dietro… e le persone sbagliate… le scelte affrettate… gli errori che hai fatto… i torti che hai subito… le situazioni che non hai scelto e ti sono capitate addosso…
Posso dirtelo? A volte sopravvaluti le mie pretese. Chi ti ha messo in testa l’idea che quando dico CONVERSIONE pretenda che tu risolva tutti i casini della tua vita? CONVERSIONE è una cosa molto più semplice: è… cambiare occhiali 🕶️.
Vieni qui, tieni, prova questi. Che, non ti piace la montatura? Suvvia, metti su e guarda un momento…
Ecco qua, questa è CONVERSIONE: vedi? La tua vita è sempre un casino, ma è un casino amato.

Quarto giorno

Ciao, sono ancora Dio 😎.
Pensavi di esserti liberato di me? E no, non è finita qui! Gli occhiali… scoprire che la tua vita è amata con tutti i suoi casini – sì, anche quello lì! – è solo il primo passo.
La questione è molto semplice, meccanica direi. Nel motore della CONVERSIONE quell’amore che hai scoperto funziona da combustibile 🛢️. Tanto più amore c’è, tanto più il motore gira. Il problema è quando invece dell’amore nel serbatoio ci metti altro, allora il motore grippa, singhiozza, si inceppa, si impianta e tu resti fermo 😭. Questo è importante: controllare bene il carburante che usi! Ma se vai di amore, puro, senza scorie, il motore gira e gira e gira, fino a che a te viene voglia di… – sei pronto? Tieniti forte… aggrappati alla sedia 🪑… assicurati di essere solo perché potresti per qualche istante non rispondere di te… – …CAMBIARE! No, non cambiare occhiali, cambiare tu!
Ehi… Ci sei ancora…? C’è qualcuno in linea…? Mi sembra di essere in DAD💻 … Ah, rieccoti! Tranquillo, no, no, va bene, oggi non infierisco oltre, promesso! Lo so, l’unico cambiamento che vorresti fare in questo momento è cambiare Dio, ma non è un problema, davvero…  
Sai che ti dico? Hai bisogno di CAMBIARE la tua idea di CAMBIARE!

Quinto giorno

Ciao, sono Dio 😎.
Ehi… ehi… guarda che ti ho visto, è inutile che ti nascondi… Dai, vieni qui… Lo so, quella parola che ti ho detto ieri ti ha traumatizzato, ma tranquillo, no, non la ripeto… d’accordo… senz’altro… promesso 🤞 …
CAMBIARE!
Ah 🤣🤣 … No, dai, torna qui! Non fare così… scherzavo… Vieni, siediti un attimo… lascia che ti spieghi…
Sai perché CAMBIARE ti provoca così tanta repulsione? Perché tu hai in mente me che dico: “Convertiti!”, “Cambia!”, “Smetti di fare quello!”, “Inizia a fare quest’altro!”. Oppure non me, qualcun altro: i tuoi genitori se sei giovane, tuo marito, tua moglie, il tuo capo se sei adulto, i tuoi figli se sei anziano, il tuo don se sei catechista, il tuo vescovo se sei prete, la superiora se sei suora… La solfa è sempre quella: qualcuno pretende che tu cambi e a te questa cosa fa salire la bile 😤.
C’è una buona notizia: puoi non dar retta a nessuno di loro! Perché CONVERSIONE non significa cambiare perché te lo dice qualcuno, nemmeno quando sei tu quel qualcuno. CONVERSIONE è un motore che non funziona a comando, funziona ad amore. CONVERSIONE è quando a spingerti a cambiare è soltanto voler amare. Quando dentro di te percepisci il desiderio, l’esigenza di rispondere con l’amore all’amore.

Sesto giorno

Ciao, anche oggi un buon giorno da Dio 😎! (Ehi, niente doppi sensi! Guarda che vedo quello che pensi!).
Sì, dimmi pure, ti rispondo… Oh, vedo che cominciamo ad ingranare! Inizi a farmi domande sensate 🔝!
Beh, ovvio, l’amore per il motore della CONVERSIONE lo trovi al distributore ⛽! Ce n’è diversi sai… Ci sono le persone che ti vogliono bene: sono delle stazioni di servizio pazzesche quando sei in riserva. E poi succede una cosa unica da loro: ti ritrovi ad essere insieme serbatoio da riempire e distributore.
Il benzinaio più vicino però è la preghiera. Beh? Perché fai quella faccia? No, ma che dici? Chi ti ha messo in testa ‘sta cosa? Quello non è pregare! Pregare è fare il pieno di amore! È… come fumare 🚬! Che? Non fumi? Vabbè, conoscerai un fumatore… Le prime volte tossisci e ti dici: che è ‘sta roba? Non lo rifarò per niente al mondo! Poi ci ricaschi, una, due, tre volte… e a un certo punto ci prendi gusto… finché arriva il momento che non riesci più a farne a meno, perché hai bisogno di avere in circolo la tua dose quotidiana di amore.
Capita a volte però che il motore della CONVERSIONE non giri bene, sia un po’ ingolfato… se succede quello che ti serve è un buon meccanico! Ce n’è tanti di bravi, sai, spesso nascosti: uomini, donne, preti, suore, scegli tu! No, può essere anche un non fumatore 🚭. L’importante è che sia esperto di questo motore.

Settimo giorno

Ciao, sono Dio 😎 e questo è l’ultimo post che ti scrivo.
No, è inutile che insisti, un post al giorno per sette giorni è più che sufficiente! Ho lavorato più a ‘sto giro di quando ho creato il mondo, lì in sei giorni me l’ero cavata 😅 …
Il mio intento era parlarti di CONVERSIONE, ma come al solito sono riuscito a parlare soltanto di amore. È un mio limite sai… Qualsiasi cosa ho in mente di fare alla fine riesco solo ad amare…
Ah, mi hai beccato 🤭! È proprio così! CONVERSIONE vuol dire diventare anche tu, come me, capace solo di amore. No, non devi preoccuparti se non ci riesci sempre sempre… Lo so che sei uomo, di Dio – modestamente – ce n’è uno solo 😎. L’importante è che ogni volta riaccendi il motore e ti rimetti in pista. È anche una questione di allenamento, sai? Man mano che ingrani senti l’amore scorrere e se vai avanti ti inizia a travolgere, come un fiume in piena… lo vedi abbattere muri, steccati… tramutare ogni volta situazioni in occasioni… cambiarti cuore, mente, sguardo… dove c’era indifferenza ora c’è attenzione e cura, dove c’era superficialità ora c’è consapevolezza, dove c’era egoismo ora c’è condivisione, dove c’erano voragini ora ci sono ponti, dove c’erano macerie ora ci sono ponteggi, dove c’era amarezza ora ci sono lacrime belle… è il motore che gira!
Prima di salutarti ho però da chiederti un favore personale 🙏: faresti un po’ di pubblicità in giro al mio amore? Te ne sarei grato, anche questo è un modo di amare. Se lo farai però, presta attenzione! Per andare a segno anche il tuo parlare di me potrebbe aver bisogno di CONVERSIONE!
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Caro Francesco, abbi pietà della Chiesa italiana!

Caro Papa Francesco, sono un cattolico italiano.

Sono un tuo grande estimatore, uno di quelli che, per intenderci, postano ogni giorno le tue citazioni sui social e considerano il pranzo della domenica il migliore della settimana perché viene dopo il tuo augurio al termine dell’Angelus.

Oggi però ti scrivo un po’ disorientato. Ho letto su un gruppo Facebook che hai esortato la Chiesa italiana a indire un Sinodo, secondo le indicazioni emerse nel 2015 al Convegno di Firenze. E, devo dirti, mi è venuto il dubbio che quel tuo sorriso nasconda in realtà un istinto sadico.

Cerca di capire. A parte il fatto che farci tornare alla mente la figura di palta di Firenze è stato un vero colpo basso. Ci avevamo messo cinque anni e una pandemia per dimenticare l’imbarazzo di quando ci hai chiesto di “avviare un approfondimento della Evangelii Gaudium”, che era uscita ormai da due anni, lasciandoci intendere che avevi in qualche modo intuito – prima o poi ci spiegherai come hai fatto – che qui nessuno l’aveva mai presa in considerazione…

E poi, un Sinodo… “Sinodo” è una parola grossa. Non potevi chiederci, che so, una convocazione interdiocesana dei consigli pastorali e presbiterali riuniti con il coinvolgimento dei rappresentati di associazioni e movimenti coordinati dagli uffici di curia? Sarebbe stato meno destabilizzante. Oppure di istituire una bella e sana Commissione col mandato di mettere in discussione tutto, così da non cambiare nulla. Di commissioni del genere in Italia siamo espertissimi: si selezionano i componenti, ci si trova tre o quattro volte per stendere un documento che non leggerà mai nessuno e fine della faccenda. Possono partecipare anche i laici e le donne, per cui, vedi, non siamo poi così indietro.

Ma un Sinodo… un Sinodo è impegnativo. Qui noi facciamo fatica a trovare un ordine del giorno sensato per il Consiglio parrocchiale… E poi, troppa attenzione, troppa esposizione mediatica. E se venissero fuori pareri diversi? In Italia noi ce ne andiamo ancora in giro con la calda coperta della Comunione ecclesiale addosso: sotto ci si accoltella, ma sopra resta sempre bella morbida e linda! Un Sinodo spuzzolerebbe tutto… E poi io lo so dove vuoi andare a parare con ‘sta cosa, torni sempre lì: la rivoluzione pastorale, la Chiesa in uscita, la realtà che è superiore all’idea… ma noi qui siamo in oggettiva difficoltà. Abbiamo passato decenni a cercare di tirar dentro più persone possibile e tu te ne arrivi a dirci di uscire. Permetti lo sconcerto. Per giunta non è che noi ce ne stiamo qui a smacchiare le casule. Abbiamo un sacco di cose che si son sempre fatte così da continuare a organizzare, e sai che fatica adesso con la pandemia? E d’altra parte non puoi non riconoscere che i nostri passi verso l’innovazione li abbiamo fatti: non hai visto come abbiamo di recente rivoluzionato il Messale? Pensa che, nonostante siano cambiate non più di dieci parole, adesso abbiamo da gestire i nostalgici del “non ci indurre in tentazione” da un lato e gli abolizionisti dell’“offerto in sacrificio per voi” dall’altro. Avrai inoltre apprezzato il nostro ultimo faticoso sforzo di inculturazione liturgica nel contesto della pandemia: dopo appena un anno di riflessione siamo riusciti a introdurre e approvare ufficialmente lo “sguardo di pace”!

Probabilmente questo Sinodo ormai si farà, perché sarebbe piuttosto imbarazzante sottrarci ancora a questo tuo nuovamente ripetuto invito. Però, te lo chiedo per il futuro: abbi pietà di questa nostra Chiesa italiana, sii un po’ più delicato, non ostinarti a infierire. La prossima volta, ti prego, mettiti una mano sul cuore, rivolgici uno sguardo compassionevole, ricordaci nella preghiera, e lasciaci morire in pace.

Con la riconoscenza e l’affetto di sempre.

Un cattolico italiano.

Sul Corriere di oggi Gramellini scrive:

” Provate a calare nel lockdown i due adolescenti più famosi della letteratura, Romeo e Giulietta. Nella Verona di questi giorni non si conoscerebbero neanche: Romeo non riuscirebbe a imbucarsi in casa Capuleti, neppure se fosse munito di regolare autocertificazione. Così resterebbe congelato nelle sue passioni sbagliate ma conosciute, finendo per andare a prendere inutilmente freddo sotto il balcone della sdegnosa Rosalina, purché entro e non oltre le dieci di sera. Probabilmente lui e Mercuzio si ubriacherebbero di continuo e andrebbero a fare a botte con la banda rivale per dare un senso alla noia. Certo, i due amanti non morirebbero più per le conseguenze del loro amore. Però morirebbero dentro, per non averlo vissuto”.

E però mi chiedo: la vita è un treno che passa una volta sola e se lo perdi – per negligenza tua o per contingenze che non dipendono da te – sei condannato inesorabilmente a “morire dentro”? Oppure questa vita che ci abita è più forte della nostra fragilità, è capace di farsi strada tra le piccole fessure che anche la peggiore situazione lascia aperte, e trova il modo di fiorire?

Normalmente si postano foto della neve appena caduta, quando il suo manto bianco ricopre ogni cosa di perfezione, in un incanto sempre nuovo.
E il prato, l’erba, i fiori, si fotografano in primavera, quando tutto è rigoglioso ed esplode di bellezza.
Ma a ben vedere per la maggior parte del tempo la natura rimane spoglia, imperfetta, brutta. Nel mezzo di un non più e un non ancora. E guardandola così, viene da pensare al passato, ricordando com’era, o anticipare il futuro, immaginando come sarà. Difficilmente ci si sofferma a contemplarla, ammirarla, fotografarla in queste condizioni.
Eppure, se domani sarà rigolgiosa e bella, se ci perderemo a gustare i suoi colori, i suoi profumi, il suo splendore, è perché è passata attraverso questo tempo. Che appare incompiuto, brullo, perso, che si salterebbe volentieri, se fosse possibile… ma è quanto mai fecondo e necessario.

Crederesti in Dio se il Paradiso non ci fosse?

Mi ha fatto riflettere la provocazione iniziale con cui Daniele Gianolla apre il suo articolo, su questo blog, a commento dell’ultimo lungometraggio Disney, Soul, ossia la domanda: “Se il Paradiso non esistesse voi credereste ancora in Dio?”. Credo sia una di quelle domande capaci di fare chiarezza. Chiarezza sulla fisionomia della nostra fede e della nostra relazione con Dio.

Vi è un certo modo di pensare al cristianesimo tutto centrato sull’aldilà. Si pensa cioè alla vita cristiana come una preparazione, un esame, in vista di ciò che verrà dopo, in vista di un giudizio che decreterà se ci siamo meritati il Paradiso o meno. Per quanto la teologia insista sulla dimensione gratuita della salvezza, quindi sganciata dalla mera logica del merito, nel sentire comune, tra i non addetti ai lavori potremmo dire, è ancora questa l’idea normalmente più diffusa: essere cristiani significa obbedire a Dio, rinunciando a sé stessi per fare la sua volontà, affinché dopo la morte ci accolga nel suo regno.

Per capire se anche noi pensiamo alla vita cristiana sostanzialmente in questi termini è sufficiente fare questo piccolo test: provate a pensare al personaggio peggiore che vi viene in mente, immaginate che nonostante tutto quello che ha compiuto, in punto di morte si converta, chieda perdono e, come da catechismo cristallino, ottenga la salvezza: che reazione avete? (Quella istintiva, non quella ossequiosa!).

Se vi sale un moto di rabbia nei confronti di un Dio così ingiusto (“io ho rinunciato a così tante cose per poter guadagnare il Paradiso e questo che ne ha fatte di tutti i colori viene trattato come me?”) potreste essere ottimi amici del fratello maggiore della famosa parabola, quello che non vuole entrare a far festa per il ritorno del fratello minore. Il problema di questo fratello – cui spesso ci sentiamo così solidali – non è tanto non riuscire a perdonare e non accettare l’illogico amore del Padre, ma è ritenere che il suo rimaner fedele non abbia valore in sé, ma solo in vista di una futura ricompensa. Il fratello maggiore pensa alla relazione col Padre come obbedienza finalizzata a un guadagno (“io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici” Lc 15,29). Se non ci fosse ricompensa, oppure se la ricompensa per la quale ho tanto faticato la ottiene anche chi non ha fatto nulla, che senso ha tutto questo impegno?

Da questa obiezione – che, per intenderci, non ha niente di insensato – se ne esce solo cambiando prospettiva. Finché continueremo a pensare alla vita cristiana come un sacrificio, una vita di rinunce, di abnegazione, continueremo a invidiare chi si gode la vita, e se ci verrà detto che ha ottenuto la nostra stessa ricompensa, proveremo questa ineccepibile sensazione di ingiustizia. Cambiare prospettiva significa due cose: smettere di avere come obiettivo (solo) la ricompensa finale e riconoscere che la vita cristiana per sé stessa – anche se il paradiso non ci fosse – varrebbe la pena lo stesso di essere vissuta.

La vita cristiana è la possibilità di vivere ogni momento, ogni situazione non da soli ma nell’abbraccio di Dio. È l’opportunità di vivere non per sé ma per gli altri, non perché così ci guadagni qualcosa domani, ma perché sperimenti che quello è il modo più bello di stare al mondo. È la possibilità di vivere rifiutando tutto ciò che degrada e rende schiava la vita, non per obbedienza coatta ad un comando, ma per il gusto di essere liberi e rendere liberi. La vita cristiana è anzitutto per l’oggi, per il qui e ora. Così come lo è la vocazione. Quando si parla di vocazioni (alla vita religiosa, ma anche al matrimonio) troppe volte si sottolinea la dimensione di rinuncia rispetto a quella della bellezza. Chi sceglie una vocazione con autenticità non lo fa sottomettendosi al volere di un Dio che chiede obbedienza, ma perché ha scoperto che non c’è niente di meglio per la propria vita che vivere così. E dentro lì i vincoli – quelli che all’esterno appaiono rinunce – non sono vissuti come ostacoli, ma come ciò che permette di vivere davvero in pienezza.

È solo in questa prospettiva che appare comprensibile, non ingiusto, un Dio che accoglie chi si pente all’ultimo secondo: se crediamo davvero che una vita senza Dio – e, più difficile, senza Chiesa – non è un guadagno ma una perdita. Che il male non è un’opportunità che Dio ci vuole negare, ma un limite a una vita piena. Che la vita cristiana vale la pena di essere vissuta per sé stessa, così com’è, anche se il Paradiso non ci fosse. Certo che speriamo e crediamo nella vita eterna, ma forse la vita cristiana è genuina quando a muoverci non è anzitutto la promessa per il dopo, ma la consapevolezza del centuplo che abbiamo già qui e ora. Quello di cui abbiamo più bisogno è di gente capace di darne testimonianza.

Parrocchia: le radici di una crisi (irreversibile?)

Provo a dare anch’io un contributo al dibattito scaturito, qui su Vino Nuovo, dagli articoli di Sergio Di Benedetto sulla crisi della parrocchia (li trovate qui e qui). In essi si mettono in luce sette crisi e alcune parole chiave, che mi paiono descrivere bene la situazione nella quale si ritrovano oggi le parrocchie. Provando a proseguire la riflessione, mi sembra che alla radice di tutto si possano riconoscere da un lato alcuni mutamenti del contesto sociale che sul versante ecclesiale non sono mai stati realmente affrontati e metabolizzati. Dall’altro alcune questioni irrisolte riguardanti il modo di pensare la vita cristiana comunitaria e, di conseguenza, il ruolo della parrocchia in riferimento ad essa.

Il primo mutamento mai davvero messo a tema riguarda il modo di vivere il territorio. La parrocchia intesa come “Chiesa che vive in mezzo alle case” (cfr Christifideles Laici, 26rischia di rifarsi a un’immagine di territorio che non esiste più. Oggi, soprattutto giovani e adulti, abitano più luoghi, peraltro suddivisi in reali e virtuali. La nostra casa, il nostro quartiere, il nostro paese o città, non sono più né gli unici né spesso i più significativi (in termini di quantità di tempo speso e di qualità di energie profuse) luoghi in cui viviamo. Passiamo molto più tempo con persone che stanno anche molto distanti di quanto ne spendiamo con chi ci abita accanto, che spesso non conosciamo neppure; ci sono strati di popolazione residenti nello stesso luogo che di fatto non si incontrano mai, e questo è un dato di cui non si può non tener conto. L’idea di parrocchia pensata come cura di uno specifico territorio rischia di scontrarsi con una realtà in cui chi risiede in un luogo spesso non lo abita e viceversa. Non è un caso che le iniziative parrocchiali che riescono a coinvolgere di più siano quelle rivolte ai bambini e agli anziani, le categorie di persone che vivono maggiormente riferendosi ancora a un territorio preciso. Ma chiaramente non possiamo pensare a una Chiesa accessibile solo a loro. Un ripensamento della parrocchia allora passa anzitutto dalla consapevolezza che il riferimento territoriale classico non è più in grado, da solo, di incidere. Potrebbe essere fecondo da questo punto di vista provare a pensare il territorio non più come uno spazio fisico ma come il luogo della quotidianità delle persone: non più una Chiesa che presidia un territorio ma una Chiesa capace di entrare nella quotidianità della gente, attraversando i diversi luoghi, reali e virtuali, nella quale essa si dispiega.

Un secondo mutamento mai metabolizzato è il passaggio dei cristiani da maggioranza a minoranza dentro la società. È un mutamento ancora in corso e per questo presenta tratti di ambiguità. Se da un lato infatti la partecipazione alla vita parrocchiale ordinaria scricchiola ovunque, dall’altro la richiesta dei Sacramenti, ad esempio, è spesso ancora alta. Stiamo vivendo il passaggio da un cristianesimo di convenzione a uno di convinzione, ma in alcuni ambiti la convenzione regge ancora. Siamo a metà del guado e questo genera fraintendimenti. Tanti nostri sforzi frustrati derivano dal mancato riconoscimento di questo mutamento in atto, dall’investire ancora troppe energie e aspettative nello star dietro alle richieste della convenzione, a qualcosa cioè che va inevitabilmente estinguendosi. Di contro facciamo ancora davvero fatica a immaginarci Chiesa di minoranza, Chiesa non più al centro di tante dinamiche e iniziative. Facciamo anzi gli scongiuri affinché non accada. Col rischio, anche stavolta, di cambiare tra i lamenti solo quando non avremo alternativa. Occorrerebbe invece fin da ora mandare avanti lo sguardo, provare a immaginare le nostre parrocchie tra vent’anni, quando non ci saranno più molti dei laici che oggi mandano avanti le Caritas parrocchiali e – anche economicamente – gran parte delle nostre iniziative, frequentano le messe feriali, i vespri della domenica pomeriggio, la catechesi per gli adulti; quando la percentuale di partecipazione alla messa della domenica sarà quella delle fasce giovanili di oggi, quando la crisi delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata avrà mostrato tutti i suoi effetti. Non per deprimerci ma per iniziare a chiederci cosa è necessario salvare e cosa lasciar andare di tutto quello che facciamo, su cosa è necessario già da oggi iniziare a investire, quali scelte anche dolorose non è più tempo di rimandare.

Ma come indicava Sergio, la crisi della parrocchia non riguarda solo una carenza di persone e un mutamento delle strutture e della società. Vi è in gioco, molto più in profondità, la domanda su cosa significhi essere cristiani oggi ed esserlo non da soli ma insieme, come comunità cristiana. Un tempo – quando nasce la parrocchia così come la conosciamo – la società, nei ritmi e negli usi, portava ancora iscritti i segni della fede. Fede e cultura andavano a braccetto, la società coincideva con la comunità cristiana. In questo contesto la parrocchia poteva limitarsi a nutrire la fede attraverso i Sacramenti e la catechesi, perché la vita cristiana comunitaria non finiva una volta usciti da Messa ma tutta la vita sociale era vita comunitaria cristiana. Oggi viviamo in un contesto in cui la cultura ha perso il legame con la fede ed è un’illusione pensare che si torni indietro. Oggi quando si esce dai cancelli parrocchiali, ci si ritrova spesso a vivere la propria fede da soli, singoli o famiglie, senza alcun sostegno della cultura, della comunità, della società. Il vero problema, irrisolto ormai da tempo, è allora identificare lo spazio e il tempo in cui vivere la comunità cristiana. La parrocchia, e di questo siamo consapevoli, non può più limitarsi ad offrire Sacramenti e catechesi, perché il contesto è mutato, ma il pezzo che manca facciamo davvero fatica a collocarlo. Cosa significa oggi vivere la comunità cristiana? È sufficiente partecipare alla Messa della domenica? Sì, ma ci si deve anche fermare sul sagrato a salutare? No, bisogna anche partecipare alla salamellata in oratorio? Vivere la comunità cristiana a ben vedere è qualcosa di molto più profondo: significa vivere insieme la fede. Come si fa oggi a vivere la fede insieme, non da soli, nel contesto in cui siamo, in un quotidiano che abita contemporaneamente più luoghi nei quali ci ritroviamo spesso soli ad avere uno sguardo credente, dentro una Chiesa che è ormai minoranza sociale e culturale? Vivere insieme la fede significa ascoltare la Parola, celebrare, festeggiare, ma anche custodire una qualità evangelica nelle relazioni; avere un occhio vigile condiviso che si fa prossimità verso chi è escluso, è nel bisogno, è diverso; un desiderio comunitario di andare ai crocicchi delle strade, che si fa pensiero, condivisione e azione corale; un’attenzione alla vita civile, che si fa voce, proposta comune, contributo nella logica del servizio; uno sguardo che raccoglie diverse prospettive, capace di discernimento e di rimettere tutto nelle mani di Dio Padre. Oggi di tutto questo riusciamo a vivere davvero pochissimo.

Sarà in grado la parrocchia di ripensarsi e reggere queste sfide o abbiamo bisogno di altro?