Da Harry Potter a Mercoledì: come è cambiata l’adolescenza

[L’articolo contiene inevitabili spoiler]

Sta spopolando, su Netflix, Mercoledì di Tim Burton – Wednesday nel titolo originale – serie che in poche settimane ha già raggiunto la terza posizione tra le più viste di sempre. La storia ha come protagonista Mercoledì, la figlia di Gomez e Morticia della Famiglia Addams, ormai adolescente. Dopo essere stata espulsa da scuola (per un motivo esilarante che non vi spoilero) finisce alla Nevermore Academy, un collegio per ragazzi con particolarità magiche: sirene, lupi mannari, gorgoni…

Diversi commentatori hanno messo in luce le forti assonanze della serie con la saga di Harry Potter: in entrambe troviamo scuole di magia, creature fantastiche, segreti da sciogliere, minacce da sventare… e soprattutto protagonisti adolescenti. I punti di contatto sono evidenti, ma l’aspetto secondo me più interessante sono le differenze che emergono nel modo in cui sono rappresentati gli adolescenti nell’una e nell’altra saga. Tra Harry Potter e Mercoledì passano esattamente 25 anni. Il primo libro di J. K. Rowling esce nel 1997, prima dell’11 settembre, delle crisi economiche, dei social, di un cambiamento climatico percepito nella sua gravità, del Covid… Un mondo radicalmente diverso da quello in cui sono chiamati a vivere gli adolescenti oggi che, proprio per questo, in Mercoledì sono dipinti con tonalità a tratti opposte rispetto a Harry Potter.
Le caratteristiche che provo a mettere in luce – cinque in particolare – non vogliono descrivere il vissuto specifico di ogni adolescente, che è unico e singolare, ma piuttosto il contesto generale nel quale gli adolescenti crescono, l’aria che respirano intorno a sé, che poi ciascuno assimila e rielabora in modo originale, a partire da ciò che concretamente incontra nel proprio vissuto.

1.     Il posto nella società. Nel mondo di Harry Potter i giovani maghi ricevono una lettera personalizzata che li invita alla scuola di magia e stregoneria di Hogwarts, dove vengono accolti e inseriti dentro un percorso che li introdurrà nel mondo magico. Gli adolescenti fanno quindi esperienza di essere chiamati personalmente, ritenuti degni di cura: c’è un investimento importante nei loro confronti. In Mercoledì la Nevermore (come lo stesso nome suggerisce) è una scuola di reietti: i ragazzi che la frequentano sono lì perché anomali, pericolosi a causa delle loro qualità magiche: quello che a Hogwarts è valorizzato, alla Nevermore è posto ai margini e guardato con sospetto. Nessuna fiducia, nessuna cura per i reietti. Sono una seccatura da confinare lì dove danno meno fastidio.

2.     Il futuro. Harry Potter è ambientato in un mondo magico parallelo al mondo reale. In questo mondo esiste una società organizzata, in cui, una volta usciti da Hogwarts, streghe e maghi troveranno la loro collocazione: potranno scegliere se diventare Auror o funzionari del ministero della magia, negozianti di Diagon Alley o professori di arti magiche… In Mercoledì oltre la Nevermore non c’è nulla. Nella serie non si fa alcun accenno al futuro dei reietti una volta terminata la scuola. Sono giovani senza prospettiva, senza futuro: quasi che gli sceneggiatori abbiano preso sul serio i programmi sulle politiche giovanili dei nostri partiti politici.

3.     Gli adulti. In Harry Potter, pur con i loro limiti, gli adulti hanno una rilevanza, sono di riferimento per gli adolescenti, riescono a trasmettere valori e ideali. Si pensi, su tutti, al rapporto tra Harry e Silente. La rappresentazione del mondo adulto in Mercoledì è tutta riassunta nelle parole che la protagonista pronuncia in apertura del primo episodio:
“Non so bene a chi sia venuta la perversa idea di aggregare centinaia di adolescenti in scuole sottofinanziate, gestite da persone i cui sogni si sono infranti da anni, ma ne ammiro il sadismo”. 
Il mondo adulto in Mercoledì è quanto di più cringe ci possa essere (nello slang giovanile, cringe è utilizzato per descrivere una persona che si comporta in modo imbarazzante senza rendersene conto). Gli adulti non rappresentano neanche lontanamente un modello a cui ispirarsi: sono inaffidabili, opportunisti, persi nel loro mondo incomprensibile. Gli adolescenti sono avanti anni luce, arrivano sempre prima a capire come stanno le cose e a trovare soluzioni. Gli adulti non capiscono, non ascoltano e invece di essere d’aiuto rappresentano un ostacolo in più da superare.
Riguardo la relazione coi genitori è interessante il personaggio di Enid, compagna di stanza di Mercoledì: è una licantropa che non riesce ancora a trasformarsi in lupo mannaro nelle notti di luna piena e viene pressata dalla famiglia perché impari. Il rapporto dell’adolescente col mondo adulto è anche questo: non sentirsi mai all’altezza delle aspettative, non ricevere il rispetto necessario dei tempi di maturazione personale.

4.     Le relazioni. Harry Potter è il trionfo dell’amicizia, della lealtà, del gioco di squadra. Mercoledì è sola e cinica. Non perché nessuno voglia stare con lei. È lei che si isola e respinge chi prova ad avvicinarsi. Quando Enid cerca di abbracciarla, lei si ritrae gelida. Quando uno dei protagonisti le rivela “Vorrei fossimo più che amici…” lei risponde: “Ti passerà, vedrai! Non sono una buona amica, figurarsi una più che buona amica. Ti ignorerò. Ti spezzerò il cuore e metterò sempre prima i miei bisogni e interessi… Stai commettendo un errore!”. Mercoledì cerca gli altri solo quando le servono, solo quando ne ha bisogno. Non perché sia insensibile o indifferente, tutt’altro! È che l’altro destabilizza. Se in Harry Potter le relazioni sono ciò che salva, Mercoledì cerca salvezza dalle relazioni, che rappresentano per lei il problema più grande di tutti. Le relazioni non sono il luogo in cui respirare la vita a pieni polmoni, sono l’inferno dell’insicurezza, della competizione, del giudizio, dell’inadeguatezza, della delusione… la solitudine è decisamente preferibile!

5.     Il male. Harry Potter rifiuta il male. Lo teme: è terrorizzato all’idea di ritrovarlo dentro di sé – come quando scopre di parlare serpentese – e dedica le sue energie a combatterlo. Mercoledì ha familiarità col male, lo ha respirato da sempre e ne ha fatto un compagno. Dopo la solitudine, il sadismo è il suo secondo rifugio. L’ideale di un mondo libero dal male, che troviamo in Harry Potter, cede il posto in Mercoledì a una realtà in cui il male è un ingrediente tra tanti, parte della normalità delle cose. Una malattia che si è cronicizzata, con la quale serve solo imparare a convivere. Anche Mercoledì combatte, ma è una lotta per la sopravvivenza. Mercoledì non cerca il bene. Cerca di restare in vita nonostante tutto; e a volte ci riesce proprio grazie al male, servendosi del male. Dinamica molto simile a quanto avviene nell’autolesionismo e in altri disturbi purtroppo diffusi nel mondo adolescente oggi.

Quale speranza, quale vita possibile per Mercoledì e la sua generazione? È la domanda che interroga quotidianamente chi è chiamato a essere genitore, insegnante, educatore con gli adolescenti oggi. E chiede anzitutto di prendere consapevolezza che gli adolescenti di oggi non sono quelli di ieri; che obbiettivi, percorsi e linguaggi educativi vanno ripensati se non vogliono correre il rischio di rivolgersi a un adolescente che non esiste più.

La serie però non è senza speranza, come Harry Potter anche Mercoledì ha un lieto fine: i malvagi vengono smascherati, i mostri sono sconfitti. Alla fine Mercoledì vince. E non vince da sola. Non ce l’avrebbe fatta da sola: “nessuno si salva da solo”. Ha bisogno dell’aiuto di compagni e adulti. E quando finalmente la vita ha avuto il sopravvento sulle forze che volevano distruggerla, arriva il tanto atteso abbraccio con Enid. Un abbraccio liberatorio, incredulo, a cui Mercoledì si abbandona abbattendo il muro di protezione che si era costruita. Lasciando finalmente scorrere la vita.

C’è una speranza anche per gli adulti. Quando tutto è finito, Mercoledì riconosce la testimonianza della preside della Nevermore, che muore difendendo la scuola: “Detesto ammetterlo, ma mi mancherà la preside Weems” commenta con Enid “Era un vero tormento, ma era in gamba. Ed è morta per l’unica cosa che amava davvero: questa scuola. La rispetto immensamente“. “Era una di noi“.

Gli adolescenti non sono insensibili o indifferenti. Partono normalmente dal presupposto che l’adulto non abbia nulla di importante da dire, nulla che valga davvero la pena ascoltare, ma quando incontrano una testimonianza vera, autentica, la sanno riconoscere. Come ai tempi di Harry Potter anche la generazione di Mercoledì desidera come non mai la vita. Vive spesso però in contesti che fanno apparire questo desiderio un’utopia irrealizzabile. Hanno più che mai bisogno di adulti che prendano sul serio il loro vissuto e che, dentro le complessità del mondo, siano testimoni credibili di una vita possibile, una vita ancora desiderabile.

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Mi impressiona che, per far sì che io oggi possa sedermi sul mio divano a guardare i mondiali, siano morte 6500 persone.
È qualcosa di fronte alla quale mi sento totalmente impotente. Sarebbe facile lavarmi la coscienza scegliendo di boicottare le partite (tanto l’Italia non c’è…). Ma nessun boicottaggio riporterà in vita quelle persone.
Forse questo mondiale invece va guardato tutto, fino in fondo, senza perdersi un singolo fotogramma. Va guardato con rabbia. Con dentro il grido dell’ingiustizia. Dando risonanza dentro di sé a questo grido. Dedicando i 90 minuti di ogni partita ad ascoltarlo: 6500 persone hanno perso la vita per… questo!
Scelgo di non sottrarmi a questo grido. Ho 64 partite per assimilarlo e farlo mio. E spero di ricordarmene ogni volta che sarò io, in prima persona, tantato di essere protagonista di ingiustizia.

Risposta a Enzo Bianchi, sulla crisi della fede

L’articolo di Enzo Bianchi apparso lo scorso 23 maggio su Repubblica ha il pregio di mettere in luce in poche righe gli elementi realmente in gioco nella crisi che il cristianesimo e la Chiesa in Italia stanno vivendo.

Di fronte allo smarrimento prodotto dalle chiese vuote, che caratterizzano la (non) ripresa della vita comunitaria ecclesiale dopo lo stop impostato dalla pandemia, fratel Enzo ha il coraggio di riconoscere che le argomentazioni con le quali veniva normalmente spiegato il calo della partecipazione dei fedeli alla vita della Chiesa, da sole non reggono più: “secolarizzazione, mutamento di vita nella società del benessere, consumismo, relativismo morale” non sono sufficienti a spiegare un’accelerazione così dirompente nell’abbandono della pratica religiosa, soprattutto nella fascia giovanile e adulta. C’è in atto qualcosa di più serio e profondo, che lui identifica in una crisi di fede dentro la Chiesa, in particolare riguardo la risurrezione e la vita oltre la morte: “Se non si crede che Gesù Cristo è vivente, è risorto da morte e ha vinto la morte, che ragione c’è a professarsi cristiani? Se non si crede che la morte è solo un esodo, che ci saranno un giudizio sull’operato umano e una vita oltre la morte, perché si dovrebbe diventare cristiani e perseverare in questa appartenenza?” scrive.

Personalmente condivido l’intuizione di Enzo Bianchi, ma credo vada approfondita. La mancanza di fede che denuncia, credo nasconda una questione più radicale, che riguarda la capacità del cristianesimo di presentarsi come opzione credibile e significativa per l’umanità di oggi, dentro e fuori la Chiesa. Il tema vero non è la mancanza di fede nella risurrezione e nella vita oltre la morte ma che dimensioni proprie della fede, quali risurrezione e vita oltre la morte, non siano più percepite da parte delle donne e degli uomini di oggi come rilevanti nel contribuire a dare significato alla vita. Di fronte ad esse la questione oggi non è credere o non credere, ma una domanda ancor più radicale: fosse anche vero, cosa me ne faccio?

Il tema serio che, a mio avviso, la Chiesa non si è ancora davvero posta è la constatazione di come il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo porti con sé un mutamento dei luoghi esistenziali in cui uomini e donne cercano e trovano il senso per la propria vita. La domanda di senso non è sopita – come teme Enzo Bianchi – ma si esprime e si indirizza altrove rispetto a prima, facendo sì che le risposte di un tempo risultino non più pertinenti. Da questo punto di vista la proposta di fede cristiana, ad esempio per quel che concerne il tema della risurrezione e della vita oltre la morte, viene percepita, nelle fasce giovanili e adulte, come risposta a una domanda che non c’è, come offerta di uno strumento utile a qualcosa che nel contesto della vita occupa oggi una posizione irrilevante. Sta qui la radice dell’evidente sterilità di tanti sforzi pur generosamente profusi – riconosciuta lucidamente da Enzo Bianchi – e della riduzione del cristianesimo a etica e spiritualità senza passare per la fede, percepita come superflua.

Il punto critico però non sta nella proposta cristiana in quanto tale: la fede ci consegna la certezza di un Dio che non smette mai di rivolgere alle donne e agli uomini di ogni tempo la sua Parola che feconda e vivifica. Se ciò che come Chiesa proponiamo risulta sterile e incomprensibile, significa che siamo noi cristiani a non riuscire a cogliere quale Parola Dio stia rivolgendo all’umanità di oggi. Da questo punto di vista serve un cambiamento di prospettiva. Siamo abituati a pensare che essere cristiani significhi credere e condividere qualcosa di fisso e sempre uguale nel tempo. Se questo è vero per i contenuti fondamentali della fede, non lo è per ciò che riguarda l’apporto specifico – la particolare Parola – che la fede offre agli uomini e alle donne in epoche diverse. Lo stesso messaggio in contesti diversi svela ed assume specificità e significati diversi. La domanda è: quali specificità e significati nuovi svela ed assume il Vangelo di Gesù nel contesto dell’umanità di oggi? Per l’umanità di oggi?

Per rispondere è necessario intraprendere una riflessione che vada a cogliere in profondità le direzioni verso le quali si orienta la domanda di senso delle donne e degli uomini oggi; riflessione che, evidentemente, non può essere condotta in modo teorico, ma attraverso l’immersione nel mondo e nei vissuti delle persone (come non smette di chiedere Papa Francesco). Quale Parola invocano questi vissuti? Quali orizzonti nuovi? Quali speranze? E cosa della fede cristiana è capace di intersecarsi, di intercettare tutto questo?

L’ultimo passaggio di questo percorso sarà il più impegnativo: servirà riformulare senza ambiguità la proposta cristiana mettendo al centro la Parola che Dio rivolge all’umanità oggi; rivedere le prassi, tenendo conto della realtà concrete della vita, al di là di ogni pur bellissima idea non più praticabile; reinventare tutto quello che, a partire dalla liturgia, appare distante e incomprensibile.

Vita sotto le bombe

Sotto un cielo illuminato da bombe,
in una città assediata dal nemico,
dentro cunicoli, unico possibile rifugio,
d’un tratto tutto tace:
sopra i boati, le raffiche, gli spari, le urla,
un vagito.
Il grido della vita, che si ribella,
ostinandosi a rinascere.

Aiuto! Non so più per cosa devo pregare!

Lo ammetto, ho un problema, non ci dormo la notte e non so come uscirne.

Tutto è iniziato verso la fine di aprile, quando si è diffusa la voce che il Papa avrebbe proposto nel mese di maggio la maratona di preghiera per la fine della pandemia. Lì per lì non ci ho dato molta importanza, il Papa chiede di pregare per un sacco di cose per cui in definitiva una vale l’altra. Poi però è arrivato il fatidico primo maggio e sono iniziati i problemi. No, Fedez non c’entra, è che, da buon cristiano mi sono messo devotamente anch’io a snocciolare la corona e…

Lo so, probabilmente a voi sembreranno questioni di poco conto, cosucce da niente, e sì, certo, se il Papa dice una cosa lo si asseconda senza discutere, come ci insegnano da sempre a fare i più tradizionalis… vabbè, ce lo insegnavano per lo meno. Ma io sono un po’ contorto, mi sorgono dubbi, domande, probabilmente inopportune… A metà della prima decina – era di sabato, misteri gaudiosi – inaspettate come Gabriele in casa di Maria, prendono forma nella mia mente queste poche pungenti parole: per cosa sto pregando?

Certo, il titolo della locandina del Pontificio Consiglio per la promozione della Nuova Evangelizzazione è chiarissimo: “Recita del rosario per invocare la fine della pandemia e la ripresa delle attività sociali e lavorative”. Ma, mi dicevo, davvero Dio ha bisogno della mia preghiera per cacciar via il virus e ristabilire lo status quo? Cos’è, distratto, addormentato, che non ci pensa lui sua sponte? Mi figurai Dio seduto sul trono della sua gloria, circondato dagli Angeli e dai Santi, che dormiva. Accanto aveva un campanello, collegato a un immenso vaso. Le preghiere di tutte le persone del mondo erano gocce che riempivano il vaso e il campanello sarebbe suonato a svegliare Dio solo quando il vaso si fosse completamente riempito. È così che funzionava? Più ci pensavo più mi sembrava inverosimile, ma non trovando una risposta alternativa feci di tutto per scacciare i miei dubbi e continuare il mio rosario in ossequio al dettame papale.

L’altro giorno però tutti i miei sforzi furono di botto vanificati! Apro il sito di Famiglia Cristiana e leggo il titolo di un’intervista a Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio di cui sopra, che recitava, testuale: “Preghiera, non magia”.

Ora, capiamoci, io non ho mai pensato che il Papa ci chiedesse di pregare per ottenere una magia. Tutt’al più per chiedere, chessò… un miracolo… che Dio cioè intervenga a sistemare le cose, come ha fatto, ad esempio, il 13 maggio di quarant’anni fa salvando Giovanni Paolo II dall’attentato (è sbagliata questa idea?). Che differenza ci sia tra un miracolo e una magia francamente, non essendo un teologo, farei fatica a spiegarlo, ma senz’altro dev’esserci altrimenti si chiamerebbero allo stesso modo. In ogni caso, quell’intervista ha soffiato sul fuoco dei miei dubbi: il Papa ci chiede di pregare affinché Dio faccia finire la pandemia o per qualcos’altro?

Il resto dell’intervista, sarò io, ma non mi è stato di aiuto, anzi se possibile mi ha mandato ancora più in confusione. Si parla della preghiera come “esigenza profonda di spiritualità che è nel cuore di ogni persona” – e d’accordo, ci mancherebbe – come “grido d’amore che va verso Dio” e anche qui nulla da dire; ma tutto questo, se la preghiera non è fine a sé stessa (cosa che escludo), per chiedere cosa?

Verso la fine, mi è parso di capire, si accenna a una risposta, quando SER (Sua Eccellenza Reverendissima n.d.r.) afferma: “si prega per un’intenzione particolare: per l’umanità ferita, per i defunti, per coloro che non hanno potuto salutare i cari, per i contagiati, per le donne che attendono un bambino, per quelle che hanno subito violenza, per gli imprenditori, i lavoratori, gli insegnanti. L’idea di fondo è che dove c’è una situazione di dolore c’è anche il desiderio di chiedere la forza per venirne fuori e, nonostante tutto, riprendere la vita e recuperare il tempo perduto”. Intende dire che pregare per la fine della pandemia non significa chiedere a Dio di farla finire, ma domandare la forza di ripartire per le donne e gli uomini toccati da essa? Non so se ho capito…

In ogni caso alla fine ci ho rinunciato. Sono andato avanti a recitare il rosario ogni giorno pregandone metà perché la pandemia finisca e metà perché Dio dia forza alle persone, consapevole che così facendo però le gocce della mia preghiera sarebbero finite in due diversi vasi al cospetto di Dio, comportando con ciò un inevitabile ritardo per entrambe le intenzioni…

Se qualcuno di voi avesse una risposta da darmi gliene sarei sinceramente grato! Anche perché negli ultimi giorni si è fatta strada in me una paura che, se corrispondesse al vero, sarebbe piuttosto preoccupante: non è che metà dei cristiani crede in un Dio che, se pregato a dovere e comunque per motivazioni sue imperscrutabili, interviene nella storia a sistemare le cose, mentre l’altra metà crede che Dio agisca sì nella storia, ma facendosi presente nel cuore delle donne e degli uomini che con la preghiera si mettono in ascolto della sua Parola e traggono la forza per essere loro presenza di Dio nel mondo? Non è che, consapevoli di questo, i Reverendi Monsignori giochino a dare un colpo al cerchio e un colpo alla botte, nel tentativo di tenere insieme capra e cavoli?

Ma cosa mi viene mai in mente?! Scusate, è senz’altro tutto frutto della mia immaginazione!