Sul Corriere di oggi Gramellini scrive:

” Provate a calare nel lockdown i due adolescenti più famosi della letteratura, Romeo e Giulietta. Nella Verona di questi giorni non si conoscerebbero neanche: Romeo non riuscirebbe a imbucarsi in casa Capuleti, neppure se fosse munito di regolare autocertificazione. Così resterebbe congelato nelle sue passioni sbagliate ma conosciute, finendo per andare a prendere inutilmente freddo sotto il balcone della sdegnosa Rosalina, purché entro e non oltre le dieci di sera. Probabilmente lui e Mercuzio si ubriacherebbero di continuo e andrebbero a fare a botte con la banda rivale per dare un senso alla noia. Certo, i due amanti non morirebbero più per le conseguenze del loro amore. Però morirebbero dentro, per non averlo vissuto”.

E però mi chiedo: la vita è un treno che passa una volta sola e se lo perdi – per negligenza tua o per contingenze che non dipendono da te – sei condannato inesorabilmente a “morire dentro”? Oppure questa vita che ci abita è più forte della nostra fragilità, è capace di farsi strada tra le piccole fessure che anche la peggiore situazione lascia aperte, e trova il modo di fiorire?

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Guardare il nostro tempo con gli occhi della fede

Che la pandemia ci abbia reso migliori non pare proprio. C’era un’ingenuità di fondo in questa speranza, quella di ritenere che le prove e le sofferenze in quanto tali sappiano suscitare nell’uomo dei moti di bene. Veniva spontaneo paragonare la quarantena al cammino di Israele nel deserto, con tutto ciò che di positivo questa immagine porta con sé: il tempo del fidanzamento tra Dio e il suo popolo, l’acqua dalla roccia, la manna, il lieto fine con l’ingresso nella terra della promessa. Ma il deserto non è solo questo. I racconti biblici ci dicono che il popolo non è così spontaneamente ben disposto a lasciarsi guidare, ad avere fiducia, a camminare unito verso la “terra dove scorre latte e miele” (Es 3,17). Il popolo mormora, rimpiange l’Egitto, vuole decidere da solo chi adorare, perde di vista ciò che gli sta davanti e vorrebbe tornare indietro.

Vedo forte il rischio che il deserto della pandemia ci abbia reso solo questo: gente lamentosa, che rimpiange com’era prima e si rassegna per la consapevolezza che non sarà più così, che il meglio c’è già stato e che del futuro che si prospetta faremmo volentieri a meno.

Da cristiani non possiamo accettare di far nostro questo sguardo. La domanda è però come guardare a questo tempo con gli occhi della fede, come interpretarlo, come viverlo alla luce della Parola.

Più che ai quarant’anni nel deserto, oggi il nostro tempo mi pare analogo a un altro momento della storia di Israele; il momento centrale della sua vicenda, attorno a cui ruota tutta la predicazione profetica, il vero punto di svolta della fede del popolo eletto: l’esperienza dell’esilio a Babilonia.

Israele subisce in quel momento la più grande umiliazione possibile. Gerusalemme conquistata. Il tempio distrutto. Il popolo deportato in terra straniera. Tutto sembra finito. Come oggi, non si scorge alcun futuro promettente all’orizzonte. I profeti avevano messo in guardia Israele, ma il popolo non ha dato loro retta e quanto era stato preannunciato si è realizzato. Il popolo nato dalla promessa di Dio ad Abramo di una terra e di una discendenza si ritrova senza patria, mescolato ad altri popoli. La nazione che aveva come primo comandamento “non avrai altri dei di fronte a me” (Es 20,3) si ritrova ad abitare una terra popolata di divinità straniere.

Come ha vissuto Israele questo passaggio terribile della sua storia? La cosa sorprendente è che questo momento, invece di essere la fine di tutto, sarà il vero inizio della vicenda e della fede di Israele. L’esperienza dell’esilio produrrà un sussulto nella coscienza del popolo che gli permetterà di rileggere tutta la sua storia e interpretarla in una chiave nuova. La riflessione teologica di questo periodo porterà alla stesura definitiva della Torah, che racchiude la fede più matura di Israele, nata proprio dall’esperienza dell’esilio. Israele riconoscerà la propria infedeltà all’alleanza con Dio, ma, insieme, la promessa che ancora JHWH non smette di offrire. Sarà questo sguardo nuovo verso la propria storia e la fede in un Dio che continua a dischiudere davanti un futuro promettente a consentire un nuovo inizio. E quando finalmente potrà tornare a Gerusalemme, ciò che l’esilio ha fatto maturare nella coscienza del popolo gli consentirà di dare inizio a una nuova storia, che arriva fino a noi oggi.

Credo che guardare il tempo che stiamo vivendo guidati dalla luce della fede e della Parola significa provare a ripercorrere anche noi oggi le orme di ciò che fece Israele attraversando l’esilio. Rifiutando la tentazione della rassegnazione. Ritrovandoci, seppure dispersi per troppo tempo ognuno per conto proprio, parte di un popolo accomunato da un unico destino. Riconoscendo quanto c’era di sbagliato nel nostro modo di vivere e immaginandolo nuovo. Rimettendo a tema i tanti aspetti della nostra vita e della nostra fede che davamo per scontati e che ora non lo sono più. Confidando ancora e nuovamente nella promessa di Dio che non viene mai meno e, anzi, si rinnova ogni volta che la storia segna un punto e chiede un nuovo inizio. Promessa che contraddice ogni nostra rassegnazione, che costringe e autorizza chi la accoglie a guardare al futuro con speranza e lo impegna a trovarne i semi ogni giorno nelle pieghe di questo nostro tempo.

Come cristiani ci è chiesto di essere sale e lievito nella pasta. Forse oggi questo significa essere portatori di uno sguardo così. Insieme come Chiesa, ma anche ciascuno di noi, lì dov’è.

Il mattino di Pasqua dopo il Covid19, tra cocci e sogni

Tornerà tutto come sempre o niente sarà più come prima? Sono domande che ci facciamo tutti in questo tempo di vita chiusa in casa, ingabbiata, come disse Papa Francesco all’inizio della pandemia.

Certo le conseguenze di questi mesi di distanza e videochiamata lasceranno segni indelebili. Penso soprattutto alle famiglie colpite dalla malattia, dal lutto, dall’incertezza lavorativa, famigliare e personale. Alle persone sole, rimaste isolate per così tanto tempo, agli anziani, ma anche ai ragazzi, privati del contatto fondamentale con gli amici, della vicinanza fisica, reale, di insegnanti ed educatori, che nessuna lezione a distanza potrà mai sostituire nella loro presenza educativa – e non solo istruttiva – fatta di sguardi, gesti, attenzioni…

Tutto questo lascerà in noi scorie e cocci, che con sapienza ci sarà chiesto di prendere in mano e provare a ricomporre. Saremo chiamati probabilmente per diverso tempo a rispettare norme igienico-sanitarie che contribuiranno a modificare ulteriormente le nostre abitudini e il nostro stile di vita. Ma se provo a pensare al domani, vorrei davvero non fosse solo questo. Non fosse cioè solamente un raccogliere cocci e rispettare nuove regole. A queste componenti, che senz’altro vivremo, sogno se ne aggiunga un’altra…

Il tempo che stiamo vivendo, alla luce della Settimana Santa da poco vissuta, mi appare molto pasquale. Sia in senso etimologico – è un tempo di passaggio – sia facendo riferimento alle vicende bibliche che la Pasqua ebraica e quella cristiana rievocano. In tanti hanno messo in luce la similitudine tra il nostro tempo e quello di Israele nel deserto, quello dei discepoli, chiusi in casa per la paura. Stretti tra un passato rimpianto – “Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cetrioli, dei cocomeri, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra gola inaridisce; non c’è più nulla” (Nm 11,5-6) – e un futuro ancora indecifrabile – “Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute” (Lc 24,21).

Ma il tempo del deserto, lo sappiamo, non è solo un tempo di aridità e privazione. Biblicamente è un momento di intimità, con sé e con Dio, nel quale siamo ricondotti all’essenziale e maturano i sentimenti più veri, i desideri più profondi, le scelte più feconde.

Sono tantissime le provocazioni che questa quarantena offre alla nostra vita, alla riflessione sul senso di quello che viviamo, sulle nostre abitudini e su cosa vi dia realmente significato; alcune cose oggi ci appaiono con una chiarezza inaudita. Il valore del lavoro, delle relazioni, l’insufficienza del web come strumento per viverle, la consapevolezza di essere “tutti sulla stessa barca”, non delle monadi autosufficienti, ma parte di un popolo, di un mondo, in cui quello che io vivo appartiene anche all’altro e quello che io faccio riguarda tutti. Tantissime dinamiche delle nostre società a cui eravamo assuefatti, emergono in tutta la loro contraddittorietà: un capitalismo presentato come panacea di tutti i mali che si mostra insufficiente e inadeguato – se non di ostacolo – alla sfida della pandemia; lo stridore del confronto tra gli investimenti in armamenti e quelli per la spesa sanitaria; città simbolo di efficienza e modernità che annaspano e rischiano il collasso; una politica fatta, con le dovute eccezioni, da VIP improvvisati che non sanno come barcamenarsi, stretti tra la volontà di preservare il consenso e la necessità di applicare misure che la competenza di altri suggerisce. Per non parlare delle enormi provocazioni che la sospensione delle Messe, la loro sostituzione con lo streaming senza popolo, lo spostamento del luogo ecclesiale nel contesto famigliare, e mille altre cose, pongono alla vita della Chiesa e al suo futuro.

Quello che sogno è che di queste evidenze di oggi, domani possiamo fare tesoro. Quando potremo, impegniamoci a creare luoghi e momenti per incontrarci, ascoltarci e raccontarci, affinché, con discernimento, possiamo abbandonare rivalità e contrapposizioni e raccogliere insieme la novità – la manna nel deserto, il sepolcro vuoto il mattino di Pasqua – che questo tempo ci consegna. E deciderci a desiderare uniti un mondo nuovo, una Chiesa nuova, relazioni nuove – la Terra Promessa, l’incontro col Risorto, che dà la forza di partire senza indugio. Che il domani non sia un oscillare tra la nostalgia di ieri e i cocci di oggi, ma possa essere soprattutto un desiderio da realizzare insieme. Se così sarà, constatare che “Niente è più come prima!” non sarà solamente un rimpianto.

Dov’è Dio nel tempo del Coronavirus?

In questo tempo di Coronavirus, come ogni volta che la nostra umanità è toccata dalla prova, dal dolore, dalla sofferenza, chi crede, e a suo modo anche chi non crede, sente potente emergere la domanda: dov’è Dio? Perché non fa nulla se è onnipotente? Perché ci ha abbandonati a questo destino?

Non manca chi, provando a rispondere, si affretta a parlare di castigo divino, come conseguenza dell’indifferenza e dei peccati dell’uomo. Immaginando dunque un dio che assume i tratti del mitico Zeus, che dall’alto dell’Olimpo scaglia i suoi fulmini nella sua ira.

Effettivamente se si va a leggere determinate pagine dell’Antico Testamento parrebbe proprio che anche il Dio cristiano si comporti in questo modo. C’è però un’immagine nella Bibbia che fa a pugni con tutto questo, un’immagine di fronte alla quale ogni idea di un Dio che punisce e castiga crolla inesorabilmente: è l’immagine di Gesù sulla croce. Un Dio crocifisso, massacrato di botte senza nemmeno alzare un dito per difendersi. Come può essere quello Dio onnipotente? È la domanda che sconfigge la fede anche di chi aveva seguito Gesù lungo tutto il suo percorso. Non possono far altro che andarsene “col volto triste”, dicendosi “Speravamo che fosse lui a liberare Israele…”, ma ora è tutto finito.

Un po’ come noi, che speravamo tante cose, avevamo progetti, lavori, sogni per questo periodo, e ora ci troviamo confinati, senza certezze, costretti in casa senza sapere quando tutto questo finirà.

Dov’è Dio? Trovo interessante che questa domanda si espressa in forma spaziale. Ci si domanda il luogo in cui sia Dio, dando per scontato che, siccome qui non si intravede per nulla la sua presenza onnipotente, sia senz’altro altrove. È curioso: quando ragioniamo su Dio subito pensiamo alla sua onnipotenza. Forse perché è la caratteristica che più lo distingue da noi, la cosa che più ci piacerebbe provare se mai ci capitasse di diventare Dio (andatevi a rivedere in questo tempo a casa “Una settimana da Dio” con Jim Carrey, meraviglioso da questo punto di vista!). Il punto è che per noi cristiani è piuttosto complicato capire cosa significhi che Dio è onnipotente. Fai la prova: guarda un crocifisso e, come faceva don Camillo, prova a parlarci, e digli: “Come sei onnipotente Dio mio! Vorrei proprio essere come te!”. Stride tutto! Non torna nulla di quello che abbiamo in mente! Il crocifisso è esattamente il contrario dell’onnipotenza e di tutto ciò che noi aspiriamo ad essere.

Per fortuna c’è un modo più semplice di pensare al Dio di Gesù, che proprio la domanda “dov’è Dio” può aiutarci a risvegliare. La teologia, tra gli attributi di Dio, insieme all’onnipotenza, all’onniscienza, ecc… ci consegna anche quello dell’onnipresenza. Dio che è sempre presente, in ogni luogo, in ogni situazione. Apparentemente ci è più difficile pensare a un Dio onnipresente che a un Dio onnipotente, ma se andiamo più in profondità ci rendiamo conto del contrario.

Dov’è Dio? Perché non fa nulla se è onnipotente? Perché ci ha abbandonati a questo destino?

Il Dio di Gesù è il Dio che ha usato la sua onnipotenza per poter essere presente in ogni situazione umana. Quel Dio crocifisso è l’immagine di ogni sofferenza umana. Dio ha voluto entrarci nella nostra sofferenza, per poterci essere accanto in ogni situazione. Dov’è Dio? Credere nel Dio di Gesù ti consegna la certezza che Dio è lì con te, ieri, oggi e sempre. È nei reparti di terapia intensiva, è accanto alle file di bare ammonticchiate, è dietro ogni lacrima che ti riga il viso. Ed è lì non solo per consolarti, ma per dirti che quel male, quel dolore, quella morte non sono l’ultima parola sulla tua vita. Per dirti che lui ci è passato, sa che dopo il buio c’è ancora luce, dopo il tempo del sepolcro c’è il tempo della resurrezione.

Questa fede in un Dio onnipresente, ci svela allora anche il senso di Dio onnipotente. Onnipotente nel vincere la notte, vincere le tenebre e il buio. Non vengono da Dio il dolore e la sofferenza, noi veniamo da Dio invece, per questo quelli saranno sconfitti e noi vivremo. La fede in Gesù ci dice che al di là e in tutto quello che stiamo vivendo c’è ancora una promessa. Ci garantisce che è proprio vero che #celafaremo! Perché il Crocifisso Risorto è con noi, ci accompagna nella notte per condurci a un nuovo giorno di luce.