Crederesti in Dio se il Paradiso non ci fosse?

Mi ha fatto riflettere la provocazione iniziale con cui Daniele Gianolla apre il suo articolo, su questo blog, a commento dell’ultimo lungometraggio Disney, Soul, ossia la domanda: “Se il Paradiso non esistesse voi credereste ancora in Dio?”. Credo sia una di quelle domande capaci di fare chiarezza. Chiarezza sulla fisionomia della nostra fede e della nostra relazione con Dio.

Vi è un certo modo di pensare al cristianesimo tutto centrato sull’aldilà. Si pensa cioè alla vita cristiana come una preparazione, un esame, in vista di ciò che verrà dopo, in vista di un giudizio che decreterà se ci siamo meritati il Paradiso o meno. Per quanto la teologia insista sulla dimensione gratuita della salvezza, quindi sganciata dalla mera logica del merito, nel sentire comune, tra i non addetti ai lavori potremmo dire, è ancora questa l’idea normalmente più diffusa: essere cristiani significa obbedire a Dio, rinunciando a sé stessi per fare la sua volontà, affinché dopo la morte ci accolga nel suo regno.

Per capire se anche noi pensiamo alla vita cristiana sostanzialmente in questi termini è sufficiente fare questo piccolo test: provate a pensare al personaggio peggiore che vi viene in mente, immaginate che nonostante tutto quello che ha compiuto, in punto di morte si converta, chieda perdono e, come da catechismo cristallino, ottenga la salvezza: che reazione avete? (Quella istintiva, non quella ossequiosa!).

Se vi sale un moto di rabbia nei confronti di un Dio così ingiusto (“io ho rinunciato a così tante cose per poter guadagnare il Paradiso e questo che ne ha fatte di tutti i colori viene trattato come me?”) potreste essere ottimi amici del fratello maggiore della famosa parabola, quello che non vuole entrare a far festa per il ritorno del fratello minore. Il problema di questo fratello – cui spesso ci sentiamo così solidali – non è tanto non riuscire a perdonare e non accettare l’illogico amore del Padre, ma è ritenere che il suo rimaner fedele non abbia valore in sé, ma solo in vista di una futura ricompensa. Il fratello maggiore pensa alla relazione col Padre come obbedienza finalizzata a un guadagno (“io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici” Lc 15,29). Se non ci fosse ricompensa, oppure se la ricompensa per la quale ho tanto faticato la ottiene anche chi non ha fatto nulla, che senso ha tutto questo impegno?

Da questa obiezione – che, per intenderci, non ha niente di insensato – se ne esce solo cambiando prospettiva. Finché continueremo a pensare alla vita cristiana come un sacrificio, una vita di rinunce, di abnegazione, continueremo a invidiare chi si gode la vita, e se ci verrà detto che ha ottenuto la nostra stessa ricompensa, proveremo questa ineccepibile sensazione di ingiustizia. Cambiare prospettiva significa due cose: smettere di avere come obiettivo (solo) la ricompensa finale e riconoscere che la vita cristiana per sé stessa – anche se il paradiso non ci fosse – varrebbe la pena lo stesso di essere vissuta.

La vita cristiana è la possibilità di vivere ogni momento, ogni situazione non da soli ma nell’abbraccio di Dio. È l’opportunità di vivere non per sé ma per gli altri, non perché così ci guadagni qualcosa domani, ma perché sperimenti che quello è il modo più bello di stare al mondo. È la possibilità di vivere rifiutando tutto ciò che degrada e rende schiava la vita, non per obbedienza coatta ad un comando, ma per il gusto di essere liberi e rendere liberi. La vita cristiana è anzitutto per l’oggi, per il qui e ora. Così come lo è la vocazione. Quando si parla di vocazioni (alla vita religiosa, ma anche al matrimonio) troppe volte si sottolinea la dimensione di rinuncia rispetto a quella della bellezza. Chi sceglie una vocazione con autenticità non lo fa sottomettendosi al volere di un Dio che chiede obbedienza, ma perché ha scoperto che non c’è niente di meglio per la propria vita che vivere così. E dentro lì i vincoli – quelli che all’esterno appaiono rinunce – non sono vissuti come ostacoli, ma come ciò che permette di vivere davvero in pienezza.

È solo in questa prospettiva che appare comprensibile, non ingiusto, un Dio che accoglie chi si pente all’ultimo secondo: se crediamo davvero che una vita senza Dio – e, più difficile, senza Chiesa – non è un guadagno ma una perdita. Che il male non è un’opportunità che Dio ci vuole negare, ma un limite a una vita piena. Che la vita cristiana vale la pena di essere vissuta per sé stessa, così com’è, anche se il Paradiso non ci fosse. Certo che speriamo e crediamo nella vita eterna, ma forse la vita cristiana è genuina quando a muoverci non è anzitutto la promessa per il dopo, ma la consapevolezza del centuplo che abbiamo già qui e ora. Quello di cui abbiamo più bisogno è di gente capace di darne testimonianza.