Quello sguardo che hai cercato invano

Chissà cosa pensavi mentre, ancora mezza svestita, ti trascinavano via. Chissà dove volgevi gli occhi, in quel turbinio di grida, di voci, che urlavano il tuo nome accostandolo ai peggiori epiteti che a una donna possono essere rivolti. Forse li tenevi fissi a terra per la vergogna, o forse, terrorizzata, li alzavi passando disperatamente in rassegna i volti tra folla, cercando il suo… invano.

Ciò che di quel giorno non avresti mai dimenticato erano gli sguardi. Tra le spinte e gli strattoni, intorno a te scorgevi solo occhi carichi di accusa, intrisi di sdegno per quel corpo di donna reo di aver violato la legge di Dio. Sguardi non più tenuti al rispetto e al pudore perché autorizzati dal giudizio divino alla libidine della violenza.

Ma tu, di mezzo alla folla, ti ostinavi a cercare il suo sguardo… Dov’era quel volto che, chissà se per il tempo di una notte o per quello di un’intera vita, avevi amato contro ogni ragione, rischiando tutto? La legge prevedeva che l’uomo e la donna colti in adulterio venissero lapidati. Ma in catene, in cammino verso l’esecuzione, adesso c’eri soltanto tu. Dov’erano quegli occhi che, fin nel peggiore degli incubi, quello in cui venivate scoperti, erano lì e promettevano amore, confermando al tuo cuore che, per lo meno, spendeva i suoi ultimi battiti per qualcosa di vero? Era scappato? Se n’era andato? Forse, per quanto lo amavi, ti confortava saperlo al sicuro. Ma il tarlo del dubbio di una promessa tradita in quell’ora era il tormento più grande. Morire amata lo potevi accettare. Abbandonata era uno strazio.

Mentre ti conducevano al luogo dove, in nome di Dio, il massacro di una donna avrebbe riportato giustizia, passaste di fianco a una piccola folla, nei pressi del tempio. “Guardate là, c’è il Nazareno”, “Portiamola da lui, che si crede il Cristo”, “Vediamo che dice”, “È la volta buona che finisce anche lui lapidato!”. Ti gettarono in mezzo e puntarono il dito.

Mosè, nella legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”

L’attenzione di tutti si spostò su quell’uomo. Eri al centro, ma a nessuno importava più nulla di te. Nessuno badava più a quei tuoi occhi, a quelle tue lacrime, a quella bellezza sconvolta che ancora provava a resistere. Per tutti ora eri solo un’adultera, un caso di scuola del quale discutere, l’ultimo esemplare di una categoria di persone su cui dibattere e confrontare opinioni, come migranti in campagna elettorale o adolescenti nei dibattiti in TV.

Dinnanzi a quell’uomo, non osavi nemmeno alzare lo sguardo. Non sapevi chi fosse, ma se era un uomo di Dio, non poteva che confermare la tua condanna. Perché tu della tua colpevolezza eri del tutto cosciente. Non c’era alcuna scusante. L’avevi scelto tu, in mille notti insonni: avevi messo l’amore davanti alla legge, sfidando il giudizio di quel Dio che non lascia impunito chi trasgredisce i suoi comandi. Avevi preferito l’amore a Dio. 

Attendesti, con gli occhi fissi nella polvere, istanti lunghi come millenni. Poi alzasti lo sguardo e scorgesti quel volto. Non fissava te. Guardava per terra con espressione indecifrabile, scrivendo chissà che sulla sabbia. Chi era quel giudice da cui ti avevano portata e perché ci metteva tanto ad emettere la sua scontata sentenza?

Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei

Gli sguardi! Furono i loro sguardi a destarti! I volti di quegli uomini, fino a un attimo prima ubriachi della violenta onnipotenza divina, crollarono lapidati nell’orgoglio tra sconcerto e umiliazione. Ti rivolsero un’ultima occhiata famelica, come sciacalli che hanno già assaporato la preda credendola morta, ma all’improvviso viene loro sottratta. E se ne andarono furibondi.

Le lacrime rigavano ancora il tuo viso quando ti rendesti conto, tremante, di essere rimasta sola, davanti a quell’uomo. Gli volgesti lo sguardo. E fu in quel momento che, per la prima volta, i tuoi occhi incontrarono i suoi. Ti colse un senso di vertigine, battesti le palpebre incredula. Ti aspettavi il volto severo di un giudice, quello violento di un carnefice. Invece è in quegli occhi che lo trovasti: lo sguardo che avevi cercato invano tra la folla. Quello sguardo che dava luce ai tuoi sogni più neri, che, nel colmo della tua follia, avevi scelto e messo prima di tutto, finanche prima di Dio e la sua legge. Quell’amore per cui dovevi essere condannata e che invece ti aveva sorprendentemente salvata. Non avevi mai visto prima quell’uomo ma, in quegli occhi, era come se ti avesse amata da sempre. Chi era? Quello sguardo… non poteva venire da Dio! O forse sì?

Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?

Nessuno, Signore

Neanch’io ti condanno, va’ e d’ora in poi non peccare più”.

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COMMENTO AL VANGELO DELLA QUINTA DOMENICA DI QUARESIMA, ANNO C – La donna adultera (Gv 8,1-11)

Cara Costanza Miriano, su Michela Murgia dimentichi il Vangelo!

Gent.ma Sig.ra Costanza Miriano,

mi sono imbattuto casualmente nel post pubblicato sul suo profilo Facebook in merito alla scomparsa di Michela Murgia e al modo con il quale i media cattolici hanno commentato la notizia. 

Le chiedo scusa, ma non riesco a rimanere indifferente di fronte alla violenza giudicante di quanto ha scritto, soprattutto dal momento che questa violenza è spacciata per espressione del pensiero cristiano. Per questo ho scelto di scriverle, non per mettere in piedi un’inutile polemica, ma per l’esigenza che sento, dopo aver letto il suo post, di gridare che quel modo di giudicare e di parlare della vita di una donna è il contrario della prospettiva cristiana, non è in nessun modo coerente con essa. Per quale motivo? Perché è l’opposto del Vangelo. 

In poche righe lei fa a pezzi la vita di Michela Murgia. Non le sue idee, sulle quali è legittimo discutere. La sua vita. Questo è il contrario del Vangelo. Affermare che “Aveva avuto un’infanzia oggettivamente difficile e questo ha inevitabilmente condizionato il suo sguardo sulla famiglia. Era uno sguardo ingannato, vedeva patriarcato e violenza maschile anche dove non c’era; forse non aveva conosciuto nemmeno un uomo di quelli che sanno dare la vita per una donna e dei figli, o forse quando li ha visti non li ha saputi riconoscere (era separata e non aveva avuto figli)” da un punto di vista umano è violentare il vissuto di una donna, dal punto di vista cristiano è far proprio uno sguardo opposto a quello che Gesù nei Vangeli riserva ad ogni persona: fosse anche tutto vero, nella prospettiva cristiana anche il vissuto più problematico diventa oggetto di accoglienza compassionevole, mai di giudizio senza appello.

Ma c’è di più. Nel post lei dipinge Michela Murgia come l’opposto di tutto ciò che il cattolicesimo professa. Mi ha colpito la totale assenza di una benché minima nota positiva. Solo giudizio e opposizione. Sintomo di un modo di pensare che non è cristiano, è manicheo. Da un lato il mondo, dall’altro la Chiesa, da un lato il bene, dall’altro il male, distinti con una chiarezza netta e precisa, catechismo alla mano. Dimenticandosi del Vangelo, dove Gesù parla di un campo in cui grano e zizzania crescono assieme, in modo quasi indistinto; tanto che il padrone, per evitare di far confusione tra bene e male, sospende il giudizio. Lo sguardo cristiano non ha fretta di usare la falce; cerca invece sempre di cogliere il grano buono che c’è e di non perderlo, fosse anche un solo piccolo stelo. L’incapacità di lasciarsi almeno interrogare da una figura come quella di Michela Murgia, il fastidio verso chi invece, dentro la Chiesa, coglie in lei grano buono, denotano inequivocabilmente l’assenza di uno sguardo autenticamente cristiano sulla realtà. 

Ci tengo a precisare come affermare questo non significhi da parte mia mettere in discussione in alcun modo la sua fede personale, come lei invece non si fa scrupolo di fare nei confronti di Michela Murgia al termine del post, sentenziando che “La fede non è solo sapere che esiste Dio. Magari l’ha riacquistata nell’ultimo momento, ma perderla l’aveva persa”. E questo perché personalmente credo non ci sia un unico modo prestabilito di essere cristiani, ma sia possibile dentro la Chiesa la coesistenza di una molteplicità di prospettive che si arricchiscono a vicenda: quelle tradizionali alle quali lei è più vicina, che custodiscono indubbiamente ricchezze da non perdere, insieme a tante altre, tra le quali, ad esempio, quelle in cui lo Spirito suscita modalità originali di vivere lo stesso amore di Gesù in contesti dove l’uomo e la donna, la famiglia, il matrimonio e la generazione sono pensati in modo differente.

Ho indirizzato questa lettera a lei con l’intenzione di raggiungere tutte quelle persone che dopo aver letto il suo post hanno pensato, come me: “se questo è essere cristiani io non voglio avere niente a che fare con la fede e con la Chiesa!”. A loro vorrei dire che, grazie al cielo, la Chiesa è anche altro, e avere uno sguardo autenticamente cristiano, fondato sul Vangelo, significa tutto l’opposto! Nella Chiesa c’è spazio e c’è bisogno, oggi più che mai, di gente capace di pensare liberamente, al di là degli schemi e col Vangelo in mano, affinché lo Spirito possa continuare a suscitare forme sempre nuove di vita cristiana.

Da Harry Potter a Mercoledì: come è cambiata l’adolescenza

[L’articolo contiene inevitabili spoiler]

Sta spopolando, su Netflix, Mercoledì di Tim Burton – Wednesday nel titolo originale – serie che in poche settimane ha già raggiunto la terza posizione tra le più viste di sempre. La storia ha come protagonista Mercoledì, la figlia di Gomez e Morticia della Famiglia Addams, ormai adolescente. Dopo essere stata espulsa da scuola (per un motivo esilarante che non vi spoilero) finisce alla Nevermore Academy, un collegio per ragazzi con particolarità magiche: sirene, lupi mannari, gorgoni…

Diversi commentatori hanno messo in luce le forti assonanze della serie con la saga di Harry Potter: in entrambe troviamo scuole di magia, creature fantastiche, segreti da sciogliere, minacce da sventare… e soprattutto protagonisti adolescenti. I punti di contatto sono evidenti, ma l’aspetto secondo me più interessante sono le differenze che emergono nel modo in cui sono rappresentati gli adolescenti nell’una e nell’altra saga. Tra Harry Potter e Mercoledì passano esattamente 25 anni. Il primo libro di J. K. Rowling esce nel 1997, prima dell’11 settembre, delle crisi economiche, dei social, di un cambiamento climatico percepito nella sua gravità, del Covid… Un mondo radicalmente diverso da quello in cui sono chiamati a vivere gli adolescenti oggi che, proprio per questo, in Mercoledì sono dipinti con tonalità a tratti opposte rispetto a Harry Potter.
Le caratteristiche che provo a mettere in luce – cinque in particolare – non vogliono descrivere il vissuto specifico di ogni adolescente, che è unico e singolare, ma piuttosto il contesto generale nel quale gli adolescenti crescono, l’aria che respirano intorno a sé, che poi ciascuno assimila e rielabora in modo originale, a partire da ciò che concretamente incontra nel proprio vissuto.

1.     Il posto nella società. Nel mondo di Harry Potter i giovani maghi ricevono una lettera personalizzata che li invita alla scuola di magia e stregoneria di Hogwarts, dove vengono accolti e inseriti dentro un percorso che li introdurrà nel mondo magico. Gli adolescenti fanno quindi esperienza di essere chiamati personalmente, ritenuti degni di cura: c’è un investimento importante nei loro confronti. In Mercoledì la Nevermore (come lo stesso nome suggerisce) è una scuola di reietti: i ragazzi che la frequentano sono lì perché anomali, pericolosi a causa delle loro qualità magiche: quello che a Hogwarts è valorizzato, alla Nevermore è posto ai margini e guardato con sospetto. Nessuna fiducia, nessuna cura per i reietti. Sono una seccatura da confinare lì dove danno meno fastidio.

2.     Il futuro. Harry Potter è ambientato in un mondo magico parallelo al mondo reale. In questo mondo esiste una società organizzata, in cui, una volta usciti da Hogwarts, streghe e maghi troveranno la loro collocazione: potranno scegliere se diventare Auror o funzionari del ministero della magia, negozianti di Diagon Alley o professori di arti magiche… In Mercoledì oltre la Nevermore non c’è nulla. Nella serie non si fa alcun accenno al futuro dei reietti una volta terminata la scuola. Sono giovani senza prospettiva, senza futuro: quasi che gli sceneggiatori abbiano preso sul serio i programmi sulle politiche giovanili dei nostri partiti politici.

3.     Gli adulti. In Harry Potter, pur con i loro limiti, gli adulti hanno una rilevanza, sono di riferimento per gli adolescenti, riescono a trasmettere valori e ideali. Si pensi, su tutti, al rapporto tra Harry e Silente. La rappresentazione del mondo adulto in Mercoledì è tutta riassunta nelle parole che la protagonista pronuncia in apertura del primo episodio:
“Non so bene a chi sia venuta la perversa idea di aggregare centinaia di adolescenti in scuole sottofinanziate, gestite da persone i cui sogni si sono infranti da anni, ma ne ammiro il sadismo”. 
Il mondo adulto in Mercoledì è quanto di più cringe ci possa essere (nello slang giovanile, cringe è utilizzato per descrivere una persona che si comporta in modo imbarazzante senza rendersene conto). Gli adulti non rappresentano neanche lontanamente un modello a cui ispirarsi: sono inaffidabili, opportunisti, persi nel loro mondo incomprensibile. Gli adolescenti sono avanti anni luce, arrivano sempre prima a capire come stanno le cose e a trovare soluzioni. Gli adulti non capiscono, non ascoltano e invece di essere d’aiuto rappresentano un ostacolo in più da superare.
Riguardo la relazione coi genitori è interessante il personaggio di Enid, compagna di stanza di Mercoledì: è una licantropa che non riesce ancora a trasformarsi in lupo mannaro nelle notti di luna piena e viene pressata dalla famiglia perché impari. Il rapporto dell’adolescente col mondo adulto è anche questo: non sentirsi mai all’altezza delle aspettative, non ricevere il rispetto necessario dei tempi di maturazione personale.

4.     Le relazioni. Harry Potter è il trionfo dell’amicizia, della lealtà, del gioco di squadra. Mercoledì è sola e cinica. Non perché nessuno voglia stare con lei. È lei che si isola e respinge chi prova ad avvicinarsi. Quando Enid cerca di abbracciarla, lei si ritrae gelida. Quando uno dei protagonisti le rivela “Vorrei fossimo più che amici…” lei risponde: “Ti passerà, vedrai! Non sono una buona amica, figurarsi una più che buona amica. Ti ignorerò. Ti spezzerò il cuore e metterò sempre prima i miei bisogni e interessi… Stai commettendo un errore!”. Mercoledì cerca gli altri solo quando le servono, solo quando ne ha bisogno. Non perché sia insensibile o indifferente, tutt’altro! È che l’altro destabilizza. Se in Harry Potter le relazioni sono ciò che salva, Mercoledì cerca salvezza dalle relazioni, che rappresentano per lei il problema più grande di tutti. Le relazioni non sono il luogo in cui respirare la vita a pieni polmoni, sono l’inferno dell’insicurezza, della competizione, del giudizio, dell’inadeguatezza, della delusione… la solitudine è decisamente preferibile!

5.     Il male. Harry Potter rifiuta il male. Lo teme: è terrorizzato all’idea di ritrovarlo dentro di sé – come quando scopre di parlare serpentese – e dedica le sue energie a combatterlo. Mercoledì ha familiarità col male, lo ha respirato da sempre e ne ha fatto un compagno. Dopo la solitudine, il sadismo è il suo secondo rifugio. L’ideale di un mondo libero dal male, che troviamo in Harry Potter, cede il posto in Mercoledì a una realtà in cui il male è un ingrediente tra tanti, parte della normalità delle cose. Una malattia che si è cronicizzata, con la quale serve solo imparare a convivere. Anche Mercoledì combatte, ma è una lotta per la sopravvivenza. Mercoledì non cerca il bene. Cerca di restare in vita nonostante tutto; e a volte ci riesce proprio grazie al male, servendosi del male. Dinamica molto simile a quanto avviene nell’autolesionismo e in altri disturbi purtroppo diffusi nel mondo adolescente oggi.

Quale speranza, quale vita possibile per Mercoledì e la sua generazione? È la domanda che interroga quotidianamente chi è chiamato a essere genitore, insegnante, educatore con gli adolescenti oggi. E chiede anzitutto di prendere consapevolezza che gli adolescenti di oggi non sono quelli di ieri; che obbiettivi, percorsi e linguaggi educativi vanno ripensati se non vogliono correre il rischio di rivolgersi a un adolescente che non esiste più.

La serie però non è senza speranza, come Harry Potter anche Mercoledì ha un lieto fine: i malvagi vengono smascherati, i mostri sono sconfitti. Alla fine Mercoledì vince. E non vince da sola. Non ce l’avrebbe fatta da sola: “nessuno si salva da solo”. Ha bisogno dell’aiuto di compagni e adulti. E quando finalmente la vita ha avuto il sopravvento sulle forze che volevano distruggerla, arriva il tanto atteso abbraccio con Enid. Un abbraccio liberatorio, incredulo, a cui Mercoledì si abbandona abbattendo il muro di protezione che si era costruita. Lasciando finalmente scorrere la vita.

C’è una speranza anche per gli adulti. Quando tutto è finito, Mercoledì riconosce la testimonianza della preside della Nevermore, che muore difendendo la scuola: “Detesto ammetterlo, ma mi mancherà la preside Weems” commenta con Enid “Era un vero tormento, ma era in gamba. Ed è morta per l’unica cosa che amava davvero: questa scuola. La rispetto immensamente“. “Era una di noi“.

Gli adolescenti non sono insensibili o indifferenti. Partono normalmente dal presupposto che l’adulto non abbia nulla di importante da dire, nulla che valga davvero la pena ascoltare, ma quando incontrano una testimonianza vera, autentica, la sanno riconoscere. Come ai tempi di Harry Potter anche la generazione di Mercoledì desidera come non mai la vita. Vive spesso però in contesti che fanno apparire questo desiderio un’utopia irrealizzabile. Hanno più che mai bisogno di adulti che prendano sul serio il loro vissuto e che, dentro le complessità del mondo, siano testimoni credibili di una vita possibile, una vita ancora desiderabile.

Mi impressiona che, per far sì che io oggi possa sedermi sul mio divano a guardare i mondiali, siano morte 6500 persone.
È qualcosa di fronte alla quale mi sento totalmente impotente. Sarebbe facile lavarmi la coscienza scegliendo di boicottare le partite (tanto l’Italia non c’è…). Ma nessun boicottaggio riporterà in vita quelle persone.
Forse questo mondiale invece va guardato tutto, fino in fondo, senza perdersi un singolo fotogramma. Va guardato con rabbia. Con dentro il grido dell’ingiustizia. Dando risonanza dentro di sé a questo grido. Dedicando i 90 minuti di ogni partita ad ascoltarlo: 6500 persone hanno perso la vita per… questo!
Scelgo di non sottrarmi a questo grido. Ho 64 partite per assimilarlo e farlo mio. E spero di ricordarmene ogni volta che sarò io, in prima persona, tantato di essere protagonista di ingiustizia.

Risposta a Enzo Bianchi, sulla crisi della fede

L’articolo di Enzo Bianchi apparso lo scorso 23 maggio su Repubblica ha il pregio di mettere in luce in poche righe gli elementi realmente in gioco nella crisi che il cristianesimo e la Chiesa in Italia stanno vivendo.

Di fronte allo smarrimento prodotto dalle chiese vuote, che caratterizzano la (non) ripresa della vita comunitaria ecclesiale dopo lo stop impostato dalla pandemia, fratel Enzo ha il coraggio di riconoscere che le argomentazioni con le quali veniva normalmente spiegato il calo della partecipazione dei fedeli alla vita della Chiesa, da sole non reggono più: “secolarizzazione, mutamento di vita nella società del benessere, consumismo, relativismo morale” non sono sufficienti a spiegare un’accelerazione così dirompente nell’abbandono della pratica religiosa, soprattutto nella fascia giovanile e adulta. C’è in atto qualcosa di più serio e profondo, che lui identifica in una crisi di fede dentro la Chiesa, in particolare riguardo la risurrezione e la vita oltre la morte: “Se non si crede che Gesù Cristo è vivente, è risorto da morte e ha vinto la morte, che ragione c’è a professarsi cristiani? Se non si crede che la morte è solo un esodo, che ci saranno un giudizio sull’operato umano e una vita oltre la morte, perché si dovrebbe diventare cristiani e perseverare in questa appartenenza?” scrive.

Personalmente condivido l’intuizione di Enzo Bianchi, ma credo vada approfondita. La mancanza di fede che denuncia, credo nasconda una questione più radicale, che riguarda la capacità del cristianesimo di presentarsi come opzione credibile e significativa per l’umanità di oggi, dentro e fuori la Chiesa. Il tema vero non è la mancanza di fede nella risurrezione e nella vita oltre la morte ma che dimensioni proprie della fede, quali risurrezione e vita oltre la morte, non siano più percepite da parte delle donne e degli uomini di oggi come rilevanti nel contribuire a dare significato alla vita. Di fronte ad esse la questione oggi non è credere o non credere, ma una domanda ancor più radicale: fosse anche vero, cosa me ne faccio?

Il tema serio che, a mio avviso, la Chiesa non si è ancora davvero posta è la constatazione di come il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo porti con sé un mutamento dei luoghi esistenziali in cui uomini e donne cercano e trovano il senso per la propria vita. La domanda di senso non è sopita – come teme Enzo Bianchi – ma si esprime e si indirizza altrove rispetto a prima, facendo sì che le risposte di un tempo risultino non più pertinenti. Da questo punto di vista la proposta di fede cristiana, ad esempio per quel che concerne il tema della risurrezione e della vita oltre la morte, viene percepita, nelle fasce giovanili e adulte, come risposta a una domanda che non c’è, come offerta di uno strumento utile a qualcosa che nel contesto della vita occupa oggi una posizione irrilevante. Sta qui la radice dell’evidente sterilità di tanti sforzi pur generosamente profusi – riconosciuta lucidamente da Enzo Bianchi – e della riduzione del cristianesimo a etica e spiritualità senza passare per la fede, percepita come superflua.

Il punto critico però non sta nella proposta cristiana in quanto tale: la fede ci consegna la certezza di un Dio che non smette mai di rivolgere alle donne e agli uomini di ogni tempo la sua Parola che feconda e vivifica. Se ciò che come Chiesa proponiamo risulta sterile e incomprensibile, significa che siamo noi cristiani a non riuscire a cogliere quale Parola Dio stia rivolgendo all’umanità di oggi. Da questo punto di vista serve un cambiamento di prospettiva. Siamo abituati a pensare che essere cristiani significhi credere e condividere qualcosa di fisso e sempre uguale nel tempo. Se questo è vero per i contenuti fondamentali della fede, non lo è per ciò che riguarda l’apporto specifico – la particolare Parola – che la fede offre agli uomini e alle donne in epoche diverse. Lo stesso messaggio in contesti diversi svela ed assume specificità e significati diversi. La domanda è: quali specificità e significati nuovi svela ed assume il Vangelo di Gesù nel contesto dell’umanità di oggi? Per l’umanità di oggi?

Per rispondere è necessario intraprendere una riflessione che vada a cogliere in profondità le direzioni verso le quali si orienta la domanda di senso delle donne e degli uomini oggi; riflessione che, evidentemente, non può essere condotta in modo teorico, ma attraverso l’immersione nel mondo e nei vissuti delle persone (come non smette di chiedere Papa Francesco). Quale Parola invocano questi vissuti? Quali orizzonti nuovi? Quali speranze? E cosa della fede cristiana è capace di intersecarsi, di intercettare tutto questo?

L’ultimo passaggio di questo percorso sarà il più impegnativo: servirà riformulare senza ambiguità la proposta cristiana mettendo al centro la Parola che Dio rivolge all’umanità oggi; rivedere le prassi, tenendo conto della realtà concrete della vita, al di là di ogni pur bellissima idea non più praticabile; reinventare tutto quello che, a partire dalla liturgia, appare distante e incomprensibile.