Crederesti in Dio se il Paradiso non ci fosse?

Mi ha fatto riflettere la provocazione iniziale con cui Daniele Gianolla apre il suo articolo, su questo blog, a commento dell’ultimo lungometraggio Disney, Soul, ossia la domanda: “Se il Paradiso non esistesse voi credereste ancora in Dio?”. Credo sia una di quelle domande capaci di fare chiarezza. Chiarezza sulla fisionomia della nostra fede e della nostra relazione con Dio.

Vi è un certo modo di pensare al cristianesimo tutto centrato sull’aldilà. Si pensa cioè alla vita cristiana come una preparazione, un esame, in vista di ciò che verrà dopo, in vista di un giudizio che decreterà se ci siamo meritati il Paradiso o meno. Per quanto la teologia insista sulla dimensione gratuita della salvezza, quindi sganciata dalla mera logica del merito, nel sentire comune, tra i non addetti ai lavori potremmo dire, è ancora questa l’idea normalmente più diffusa: essere cristiani significa obbedire a Dio, rinunciando a sé stessi per fare la sua volontà, affinché dopo la morte ci accolga nel suo regno.

Per capire se anche noi pensiamo alla vita cristiana sostanzialmente in questi termini è sufficiente fare questo piccolo test: provate a pensare al personaggio peggiore che vi viene in mente, immaginate che nonostante tutto quello che ha compiuto, in punto di morte si converta, chieda perdono e, come da catechismo cristallino, ottenga la salvezza: che reazione avete? (Quella istintiva, non quella ossequiosa!).

Se vi sale un moto di rabbia nei confronti di un Dio così ingiusto (“io ho rinunciato a così tante cose per poter guadagnare il Paradiso e questo che ne ha fatte di tutti i colori viene trattato come me?”) potreste essere ottimi amici del fratello maggiore della famosa parabola, quello che non vuole entrare a far festa per il ritorno del fratello minore. Il problema di questo fratello – cui spesso ci sentiamo così solidali – non è tanto non riuscire a perdonare e non accettare l’illogico amore del Padre, ma è ritenere che il suo rimaner fedele non abbia valore in sé, ma solo in vista di una futura ricompensa. Il fratello maggiore pensa alla relazione col Padre come obbedienza finalizzata a un guadagno (“io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici” Lc 15,29). Se non ci fosse ricompensa, oppure se la ricompensa per la quale ho tanto faticato la ottiene anche chi non ha fatto nulla, che senso ha tutto questo impegno?

Da questa obiezione – che, per intenderci, non ha niente di insensato – se ne esce solo cambiando prospettiva. Finché continueremo a pensare alla vita cristiana come un sacrificio, una vita di rinunce, di abnegazione, continueremo a invidiare chi si gode la vita, e se ci verrà detto che ha ottenuto la nostra stessa ricompensa, proveremo questa ineccepibile sensazione di ingiustizia. Cambiare prospettiva significa due cose: smettere di avere come obiettivo (solo) la ricompensa finale e riconoscere che la vita cristiana per sé stessa – anche se il paradiso non ci fosse – varrebbe la pena lo stesso di essere vissuta.

La vita cristiana è la possibilità di vivere ogni momento, ogni situazione non da soli ma nell’abbraccio di Dio. È l’opportunità di vivere non per sé ma per gli altri, non perché così ci guadagni qualcosa domani, ma perché sperimenti che quello è il modo più bello di stare al mondo. È la possibilità di vivere rifiutando tutto ciò che degrada e rende schiava la vita, non per obbedienza coatta ad un comando, ma per il gusto di essere liberi e rendere liberi. La vita cristiana è anzitutto per l’oggi, per il qui e ora. Così come lo è la vocazione. Quando si parla di vocazioni (alla vita religiosa, ma anche al matrimonio) troppe volte si sottolinea la dimensione di rinuncia rispetto a quella della bellezza. Chi sceglie una vocazione con autenticità non lo fa sottomettendosi al volere di un Dio che chiede obbedienza, ma perché ha scoperto che non c’è niente di meglio per la propria vita che vivere così. E dentro lì i vincoli – quelli che all’esterno appaiono rinunce – non sono vissuti come ostacoli, ma come ciò che permette di vivere davvero in pienezza.

È solo in questa prospettiva che appare comprensibile, non ingiusto, un Dio che accoglie chi si pente all’ultimo secondo: se crediamo davvero che una vita senza Dio – e, più difficile, senza Chiesa – non è un guadagno ma una perdita. Che il male non è un’opportunità che Dio ci vuole negare, ma un limite a una vita piena. Che la vita cristiana vale la pena di essere vissuta per sé stessa, così com’è, anche se il Paradiso non ci fosse. Certo che speriamo e crediamo nella vita eterna, ma forse la vita cristiana è genuina quando a muoverci non è anzitutto la promessa per il dopo, ma la consapevolezza del centuplo che abbiamo già qui e ora. Quello di cui abbiamo più bisogno è di gente capace di darne testimonianza.

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Parrocchia: le radici di una crisi (irreversibile?)

Provo a dare anch’io un contributo al dibattito scaturito, qui su Vino Nuovo, dagli articoli di Sergio Di Benedetto sulla crisi della parrocchia (li trovate qui e qui). In essi si mettono in luce sette crisi e alcune parole chiave, che mi paiono descrivere bene la situazione nella quale si ritrovano oggi le parrocchie. Provando a proseguire la riflessione, mi sembra che alla radice di tutto si possano riconoscere da un lato alcuni mutamenti del contesto sociale che sul versante ecclesiale non sono mai stati realmente affrontati e metabolizzati. Dall’altro alcune questioni irrisolte riguardanti il modo di pensare la vita cristiana comunitaria e, di conseguenza, il ruolo della parrocchia in riferimento ad essa.

Il primo mutamento mai davvero messo a tema riguarda il modo di vivere il territorio. La parrocchia intesa come “Chiesa che vive in mezzo alle case” (cfr Christifideles Laici, 26rischia di rifarsi a un’immagine di territorio che non esiste più. Oggi, soprattutto giovani e adulti, abitano più luoghi, peraltro suddivisi in reali e virtuali. La nostra casa, il nostro quartiere, il nostro paese o città, non sono più né gli unici né spesso i più significativi (in termini di quantità di tempo speso e di qualità di energie profuse) luoghi in cui viviamo. Passiamo molto più tempo con persone che stanno anche molto distanti di quanto ne spendiamo con chi ci abita accanto, che spesso non conosciamo neppure; ci sono strati di popolazione residenti nello stesso luogo che di fatto non si incontrano mai, e questo è un dato di cui non si può non tener conto. L’idea di parrocchia pensata come cura di uno specifico territorio rischia di scontrarsi con una realtà in cui chi risiede in un luogo spesso non lo abita e viceversa. Non è un caso che le iniziative parrocchiali che riescono a coinvolgere di più siano quelle rivolte ai bambini e agli anziani, le categorie di persone che vivono maggiormente riferendosi ancora a un territorio preciso. Ma chiaramente non possiamo pensare a una Chiesa accessibile solo a loro. Un ripensamento della parrocchia allora passa anzitutto dalla consapevolezza che il riferimento territoriale classico non è più in grado, da solo, di incidere. Potrebbe essere fecondo da questo punto di vista provare a pensare il territorio non più come uno spazio fisico ma come il luogo della quotidianità delle persone: non più una Chiesa che presidia un territorio ma una Chiesa capace di entrare nella quotidianità della gente, attraversando i diversi luoghi, reali e virtuali, nella quale essa si dispiega.

Un secondo mutamento mai metabolizzato è il passaggio dei cristiani da maggioranza a minoranza dentro la società. È un mutamento ancora in corso e per questo presenta tratti di ambiguità. Se da un lato infatti la partecipazione alla vita parrocchiale ordinaria scricchiola ovunque, dall’altro la richiesta dei Sacramenti, ad esempio, è spesso ancora alta. Stiamo vivendo il passaggio da un cristianesimo di convenzione a uno di convinzione, ma in alcuni ambiti la convenzione regge ancora. Siamo a metà del guado e questo genera fraintendimenti. Tanti nostri sforzi frustrati derivano dal mancato riconoscimento di questo mutamento in atto, dall’investire ancora troppe energie e aspettative nello star dietro alle richieste della convenzione, a qualcosa cioè che va inevitabilmente estinguendosi. Di contro facciamo ancora davvero fatica a immaginarci Chiesa di minoranza, Chiesa non più al centro di tante dinamiche e iniziative. Facciamo anzi gli scongiuri affinché non accada. Col rischio, anche stavolta, di cambiare tra i lamenti solo quando non avremo alternativa. Occorrerebbe invece fin da ora mandare avanti lo sguardo, provare a immaginare le nostre parrocchie tra vent’anni, quando non ci saranno più molti dei laici che oggi mandano avanti le Caritas parrocchiali e – anche economicamente – gran parte delle nostre iniziative, frequentano le messe feriali, i vespri della domenica pomeriggio, la catechesi per gli adulti; quando la percentuale di partecipazione alla messa della domenica sarà quella delle fasce giovanili di oggi, quando la crisi delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata avrà mostrato tutti i suoi effetti. Non per deprimerci ma per iniziare a chiederci cosa è necessario salvare e cosa lasciar andare di tutto quello che facciamo, su cosa è necessario già da oggi iniziare a investire, quali scelte anche dolorose non è più tempo di rimandare.

Ma come indicava Sergio, la crisi della parrocchia non riguarda solo una carenza di persone e un mutamento delle strutture e della società. Vi è in gioco, molto più in profondità, la domanda su cosa significhi essere cristiani oggi ed esserlo non da soli ma insieme, come comunità cristiana. Un tempo – quando nasce la parrocchia così come la conosciamo – la società, nei ritmi e negli usi, portava ancora iscritti i segni della fede. Fede e cultura andavano a braccetto, la società coincideva con la comunità cristiana. In questo contesto la parrocchia poteva limitarsi a nutrire la fede attraverso i Sacramenti e la catechesi, perché la vita cristiana comunitaria non finiva una volta usciti da Messa ma tutta la vita sociale era vita comunitaria cristiana. Oggi viviamo in un contesto in cui la cultura ha perso il legame con la fede ed è un’illusione pensare che si torni indietro. Oggi quando si esce dai cancelli parrocchiali, ci si ritrova spesso a vivere la propria fede da soli, singoli o famiglie, senza alcun sostegno della cultura, della comunità, della società. Il vero problema, irrisolto ormai da tempo, è allora identificare lo spazio e il tempo in cui vivere la comunità cristiana. La parrocchia, e di questo siamo consapevoli, non può più limitarsi ad offrire Sacramenti e catechesi, perché il contesto è mutato, ma il pezzo che manca facciamo davvero fatica a collocarlo. Cosa significa oggi vivere la comunità cristiana? È sufficiente partecipare alla Messa della domenica? Sì, ma ci si deve anche fermare sul sagrato a salutare? No, bisogna anche partecipare alla salamellata in oratorio? Vivere la comunità cristiana a ben vedere è qualcosa di molto più profondo: significa vivere insieme la fede. Come si fa oggi a vivere la fede insieme, non da soli, nel contesto in cui siamo, in un quotidiano che abita contemporaneamente più luoghi nei quali ci ritroviamo spesso soli ad avere uno sguardo credente, dentro una Chiesa che è ormai minoranza sociale e culturale? Vivere insieme la fede significa ascoltare la Parola, celebrare, festeggiare, ma anche custodire una qualità evangelica nelle relazioni; avere un occhio vigile condiviso che si fa prossimità verso chi è escluso, è nel bisogno, è diverso; un desiderio comunitario di andare ai crocicchi delle strade, che si fa pensiero, condivisione e azione corale; un’attenzione alla vita civile, che si fa voce, proposta comune, contributo nella logica del servizio; uno sguardo che raccoglie diverse prospettive, capace di discernimento e di rimettere tutto nelle mani di Dio Padre. Oggi di tutto questo riusciamo a vivere davvero pochissimo.

Sarà in grado la parrocchia di ripensarsi e reggere queste sfide o abbiamo bisogno di altro?

“Ma Carlo Acutis non sbagliava mai?”

“Ma Carlo Acutis non sbagliava mai?”

È la domanda che mi ha rivolto un mio studente al termine di una lezione in cui ho presentato alla classe la figura del fresco Beato milanese. Avevo preparato con cura quel momento, cercando di evitare il rischio di fare di Carlo un santino oleografico ridotto alla descrizione delle sue devozioni – su suggerimento del bell’articolo di Alessandro Di Medio su agensir.it – dando spazio al racconto della sua umanità quotidiana, così come si dà, intesa come luogo privilegiato in cui Dio opera nella nostra vita – come sottolineava qualche giorno fa Gilberto Borghi qui su Vinonuovo.it.

Poi quella domanda, quasi stizzita, che mi ha spiazzato: “Carlo Acutis non sbagliava mai?”. “Evidentemente sì!” mi è venuto spontaneo rispondere “Carlo era un ragazzo di quindici anni del tutto normale, santo proprio perché normale”. Eppure dall’espressione perplessa del mio studente ho capito di non averlo per niente convinto. Ho avuto la sensazione che percepisse come se alla vicenda di Carlo, nonostante la mia insistenza sull’umanità, la quotidianità, la vicinanza storica e contestuale, mancasse qualcosa di essenziale per apparire credibile: il confronto col limite, col fallimento, con la fragilità.

Effettivamente in quello che ho letto su Carlo ho trovato pochissimi cenni a questi aspetti della sua vicenda. Pur nel contesto di quotidianità e normalità che la contraddistingue infatti, l’accento è quasi sempre posto sulle sue capacità, i suoi meriti, la sua serenità, la sua costanza, la sua sensibilità… Chiedersi se Carlo non sbagliasse mai significa domandarsi: questo ragazzo quindicenne Beato, di cui siamo grati di poter celebrare le virtù e le qualità umane e cristiane, non viveva fatiche, tentennamenti, momenti di dubbio, delusioni, arrabbiature? E soprattutto: come le viveva? Uscendone sempre vincitore, sicuro, a testa alta? Oppure ha fatto anche lui esperienza di cosa significhi non riuscire, deludere le aspettative, scontrarsi con gli ostacoli che la nostra umanità ci pone?

La domanda è più profonda di quello che sembri e mette in gioco l’idea che abbiamo di santità. Credo ci sia un grande equivoco da questo punto di vista: ritenere che la santità abbia a che fare con la perfezione. Pensare ai Santi come a gente sempre capace di dare il meglio di sé, di prendere le decisioni giuste, di essere all’altezza di ogni sfida, il tutto a costo zero, senza dubbi o tentennamenti, perché un Santo non ha di queste indecisioni.

Pensare alla santità in questi termini impedisce di cogliere la reale grandezza della testimonianza dei Santi. Essa non sta in una vita distante da fallimenti, fatiche e debolezze, ma nel vivere tutto questo senza smettere di lasciarsi attraversare dallo sguardo di Gesù. I Santi sono persone che hanno condiviso in tutto i travagli e le fatiche delle donne e degli uomini del loro tempo, le hanno però vissute non da soli ma sempre dentro la relazione col Padre. Una relazione capace di trasfigurare la loro umanità, facendoli diventare segni dell’amore di Dio dentro i travagli della storia. Ciò che è davvero interessante cogliere nella loro testimonianza allora è come la loro umanità fragile, limitata, piena di dubbi, si sia lasciata plasmare da un amore più grande. Cosa questo amore sia stato capace di fare in quell’umanità, per niente diversa da quella di tutti.

Carlo era un ragazzo del tutto normale, che ha vissuto tutto quello che vive un quindicenne di oggi, respirando ciò a cui è esposto, condividendo stili, paure, modi di pensare… Ma l’ha fatto dentro l’abbraccio d’amore del Padre. Quello che di Carlo allora è decisivo conoscere per cogliere la grandezza della sua testimonianza è, ad esempio: cosa ha voluto dire per lui vivere l’impegno, la fatica, l’ansia per lo studio tenendo fisso lo sguardo su Gesù? Cosa ha voluto dire essere in terza media e dover scegliere la scuola superiore tenendo fisso lo sguardo su Gesù? Cosa ha voluto dire vedere il proprio corpo trasformarsi, cambiare, provare emozioni e sensazioni nuove, tenendo fisso lo sguardo su Gesù? Cosa ha voluto dire vivere le dinamiche relazionali tipiche dell’adolescenza, con il carico di emotività, desiderio di riconoscimento, amicizia, rivalità, tenendo fisso lo sguardo su Gesù? Cosa ha voluto dire appartenere alla società dei consumi, dell’apparenza, dei reality show, tenendo fisso lo sguardo su Gesù? Cosa ha voluto dire essere un bel ragazzo, che le compagne notavano – come racconta Padre Roberto Gazzaniga, insegnante di Carlo, in un’intervista al Corriere – tenendo fisso lo sguardo su Gesù?

Credo che quel mio studente, con la sua domanda, in fondo desiderasse una testimonianza così. Qualcuno capace di dirgli: quello che vivi tu l’ho vissuto anch’io, ho sperimentato le tue stesse fatiche e fragilità, ma proprio dentro lì ho scoperto uno sguardo d’amore che non si ritrae, ti abbraccia col tuo limite e ti cambia la vita.

Su sessualità e matrimonio si rischia di far parti uguali tra diseguali?

“Non c’è ingiustizia più grande che far parti uguali tra disuguali”: è una delle frasi più celebri di don Milani.

Mi è tornata in mente l’altro giorno leggendo sul Corriere i dati Eurostat riguardanti l’età media nella quale i giovani escono dal proprio nucleo familiare nei diversi paesi europei. Non ero a conoscenza di quanto sia marcata la differenza da questo punto di vista tra paesi così vicini (e posso solo immaginare il contrasto che emergerebbe allargando l’indagine): il dato mi ha davvero impressionato. Si va dai 17,8 anni della Svezia, ai 33,1 anni del Montenegro. L’Italia ha una media di 30,1 anni.

Come sottolineano diverse analisi, queste differenze, oltre che dal contesto culturale, sono motivate dalle diverse politiche di welfare messe in campo e dalle differenti opportunità per i giovani sul mercato del lavoro. Mi ha colpito però che da parte di media e commentatori cattolici – ho trovato sul sito di Famiglia Cristiana un’intervista sul tema a don Michele Falabretti, responsabile della Pastorale giovanile della CEI; ho visto il servizio andato in onda su TV2000 – ci si sia limitati a sottolineare questi aspetti sociologici e politici, e non sia emerso invece un punto di vista più prettamente ecclesiale di fronte a questi dati.

Le domande che hanno suscitato in me sono: come incide a livello ecclesiale trovarsi in un contesto in cui la maggior parte dei giovani prima dei 30 anni non ha la possibilità di uscire di casa per dar vita a una famiglia propria? È ininfluente – sulle prassi, sui percorsi di accompagnamento, oso, sulla dottrina – che ci si trovi in un contesto in cui si esce di casa a 18 anni o a 30? Le peculiarità di ciascuna situazione non chiederebbero un discernimento specifico, per non cadere nel rischio di pretendere di far parti uguali tra diseguali?

Accogliere interrogativi di questo tipo significa entrare in una prospettiva che, accanto alle prassi consolidate e alla verità dottrinale, lasci spazio al vissuto umano concreto. Facciamo una gran fatica ad assumere questo punto di vista, perché ogni volta che proviamo anche solo ad ipotizzare un compromesso tra verità e realtà, ci sembra di sminuire la prima intaccandone perfezione e coerenza. Per questo, salvo qualche pioniere che rimane però isolato, siamo per lo più portati a scegliere di sacrificare la contingenza sull’altare della teoria immutabile, e di fronte a situazioni in cui evidentemente la realtà cozza con l’ideale, preferiamo sempre assumere il ruolo di chi con misericordia accoglie il trasgressore, piuttosto che lavorare per ridurre il peso che grava sulle spalle delle persone.

Moltissimi esempi si potrebbero portare. Ne scelgo due che hanno direttamente a che fare con il tema dell’allungamento dei tempi di permanenza in casa dei figli. Il primo riguarda i corsi prematrimoniali. Chi li conduce o li ha frequentati sa che la tipologia di coppie che viene a chiedere il matrimonio, proprio per il contesto sociale in cui ci troviamo, è oggi quanto mai varia, e la “normalità” cui ci si vorrebbe poter rivolgere – coppia di fidanzati vergini e non conviventi – è divenuta quanto mai l’eccezione. Mi chiedo, come ci rapportiamo con questa complessità? Ci accontentiamo di mostrarci misericordiosi nell’accogliere “nonostante tutto…” o cerchiamo di lasciarci interrogare dalle diverse situazioni che incontriamo? Dove poniamo l’accento? Sulla verità dottrinale – continuando quindi a proporre indipendentemente a tutti lo stesso corso, essendo il Sacramento uguale per tutti – o sui vissuti concreti delle persone, ipotizzando magari percorsi di accompagnamento differenti, come differenti sono i significati e le incidenze del medesimo Sacramento a seconda che suggelli l’unione tra una coppia di ventenni o una con qualche decennio in più, magari già convivente e con figli? Il rischio evidentemente resta quello di far parti uguali tra disuguali, a volte senza nemmeno esserne consapevoli.

Il secondo esempio è più prettamente dottrinale. Il Catechismo della Chiesa Cattolica è chiarissimo nell’inserire tra le “offese alla castità”, “l’unione carnale tra un uomo e una donna liberi, al di fuori del matrimonio” giudicandola “gravemente contraria alla dignità delle persone e della sessualità umana naturalmente ordinata sia al bene degli sposi, sia alla generazione e all’educazione dei figli” (CCC 2353). Senza voler discutere il legame tra sessualità e matrimonio mi chiedo: alla luce delle differenze sociali di cui sopra, un giudizio così lapidario, espresso in modo del tutto astorico, ossia senza prendere in considerazione minimamente l’esistenza di contesti differenti tra loro, non pone qualche interrogativo? Tanto più dal momento che si fa riferimento alla “sessualità umana naturalmente ordinata”: da questo punto di vista mi pare rappresenti una svista non indifferente non considerare come lo spostamento in avanti dell’età degli sposi significhi anche uno sfasamento rispetto ai tempi biologici del desiderio e della fertilità umana. Certo, per noi credenti la sessualità e la generazione non sono solo biologia e sociologia, vi sono dei significati teologici e sacramentali che vanno preservati. Così come è altrettanto indiscutibile che la problematica dell’accesso dei giovani al matrimonio cristiano sia molto più ampia e non circoscrivibile al tema dell’allungamento del tempo della giovinezza e della coabitazione coi genitori. Tuttavia mi pare imprescindibile, al netto di tutto questo, insistere sulla necessità di dar rilievo oggi nella Chiesa, accanto alla dottrina, alle contingenze reali della vita.

Se si vuole evitare l’ingiustizia di far parti uguali tra diseguali ci è chiesto di provare a unire la verità alla creatività, immaginando modalità praticabili attraverso le quali il Vangelo di Gesù possa trovare ancora oggi carne viva da trasfigurare. Nella consapevolezza che se questo sforzo non verrà fatto da noi a monte, sarà compiuto con meno sforzo da altri a valle: se la dottrina rimarrà qualcosa di distante dalle possibilità concrete della vita, semplicemente si sceglierà di fare a meno di parte di essa o, peggio, dell’intera prospettiva cristiana. A occhio e croce è esattamente quello che sta diffusamente accadendo.

“Dio non ti ama perché ti comporti bene”

“Dio non ti ama perché ti comporti bene; ti ama e basta. Il suo amore è incondizionato, non dipende da te.”

È un tweet che Papa Francesco ha postato qualche giorno fa. Niente di sconvolgente a prima vista: l’amore gratuito di Dio che previene ogni nostra azione e la nostra stessa vita, è una verità che la fede cristiana ci consegna da sempre. Ma andando scorrere le risposte sotto il post mi sono reso conto di quanta fatica facciamo a credere in un amore gratuito che non chiede niente in cambio.

“Scusi ma allora se faccio del bene o del male è la stessa cosa? Che incentivo ho a fare del bene?”

“Mi spieghi il significato di queste parole pronunciate da Gesù: «Neanche io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». Avrebbe potuto dire va’ e pecca quanto ti pare!”.

“Quindi se uccidessi una persona mi amerebbe con la stessa intensità di uno che va sempre in chiesa a pregare”?

Sono alcune delle risposte che mi hanno fatto riflettere. In altre si mette in contrasto il tweet con quello in cui Papa Francesco scrive “Il Signore non può entrare nei cuori duri e ideologici. Il Signore entra nei cuori che sono simili al Suo: cuori aperti e compassionevoli”, oppure con la sua recente affermazione sui migranti: “Dio ci chiederà conto”.

C’è un grande equivoco alla base di queste reazioni, che recepisce un tratto radicato in profondità nell’uomo e che Gesù ha voluto spazzare via: l’idea che l’amore vada meritato, che sia il compenso per le nostre buone azioni e la nostra coerenza di vita. La logica cristiana è diversa. Non è meritocratica, non è il ricatto di un Dio che ti dice: o fai come dico io o io non ti guardo neppure. La logica cristiana all’origine di tutto pone esattamente l’amore incondizionato di Dio per ciascuno. Un amore che non si è meritato, perché esiste da prima che possiamo averne consapevolezza. Dio anzitutto ti ama, ed è questo il punto di partenza della tua relazione con lui, non il punto di arrivo. La morale cristiana non è un modo per propiziarsi i favori di Dio, ma è solo ed esclusivamente risposta d’amore all’amore ricevuto. Ha senso solo in questo contesto d’amore che nasce dall’incontro con Dio. Senza questo riconoscimento, senza questa dinamica che accoglie l’amore ricevuto e vi risponde amando a sua volta, la morale non è cristiana. “Che incentivo ho a fare del bene?”: l’incentivo è l’amore di Dio che ti raggiunge, di fronte al quale il cuore si riempie di gratitudine e non può far altro che contraccambiare.

È evidente allora come affermare che l’amore di Dio non viene mai meno (no, neanche se uccidessi una persona!), non significhi dire che tutto è concesso. L’immagine richiamata in diverse altre risposte per descrivere questa dinamica è quella dell’amore di un genitore per il figlio. Questo amore precede il figlio e non viene mai meno qualunque cosa accada, ma questo non significa che il genitore non chieda conto al figlio delle sue responsabilità. Il fatto che l’amore dei genitori non sia in discussione non autorizza il figlio a compiere le peggiori nefandezze. Anzi, è proprio questo amore a poter motivare il suo impegno a rispondervi con coerenza ed è proprio il suo non venir meno a poterlo risollevare dalle cadute. È la mancanza di amore a produrre il male, non la sua presenza costante. Va però sottolineato un aspetto fondamentale: la risposta all’amore di Dio non ci è chiesta come un dovere. Affinché questo amore entri nella nostra vita e vi porti frutto, la nostra risposta deve avere i tratti dell’esigenza percepita interiormente di ricambiare un dono ricevuto. Una risposta d’amore all’amore, non per necessità. Perché la vita cristiana, la Salvezza, non è adempiere dei doveri, ma vivere dentro una relazione d’amore con Dio e coi fratelli, in quanto si riconosce in ciascuno di loro il volto stesso di Dio.

Un altra risposta mi ha colpito, dice così:

“Allora non ho capito niente fino ad oggi, da piccola mi insegnavano tutt’altro, che stupida, pensavo di attenermi sempre ai 10 comandamenti”.

Già! Quanto nella nostra predicazione e catechesi insistiamo su: “Dio non ti ama perché ti comporti bene”? Quanto invece mettiamo al primo posto i comandamenti, la morale, intesi come dovere, slegati dal contesto di risposta d’amore all’amore ricevuto? Quanto parlando della vita cristiana usiamo più “devi!” di “sei amato”? Forse assumere fino in fondo questa prospettiva è davvero ciò di cui abbiamo bisogno. Credo che tante incomprensioni – col mondo LGBT, con le situazioni personali e famigliari definite irregolari – nascano anche dall’incomprensione su questo punto che, come dimostrano le tante reazioni al tweet, è un tratto del messaggio cristiano che può avere ancora oggi una forza dirompente. Sta a noi credenti però non mettere la lampada dell’amore gratuito di Dio sotto il moggio del “si deve”.

Guardare il nostro tempo con gli occhi della fede

Che la pandemia ci abbia reso migliori non pare proprio. C’era un’ingenuità di fondo in questa speranza, quella di ritenere che le prove e le sofferenze in quanto tali sappiano suscitare nell’uomo dei moti di bene. Veniva spontaneo paragonare la quarantena al cammino di Israele nel deserto, con tutto ciò che di positivo questa immagine porta con sé: il tempo del fidanzamento tra Dio e il suo popolo, l’acqua dalla roccia, la manna, il lieto fine con l’ingresso nella terra della promessa. Ma il deserto non è solo questo. I racconti biblici ci dicono che il popolo non è così spontaneamente ben disposto a lasciarsi guidare, ad avere fiducia, a camminare unito verso la “terra dove scorre latte e miele” (Es 3,17). Il popolo mormora, rimpiange l’Egitto, vuole decidere da solo chi adorare, perde di vista ciò che gli sta davanti e vorrebbe tornare indietro.

Vedo forte il rischio che il deserto della pandemia ci abbia reso solo questo: gente lamentosa, che rimpiange com’era prima e si rassegna per la consapevolezza che non sarà più così, che il meglio c’è già stato e che del futuro che si prospetta faremmo volentieri a meno.

Da cristiani non possiamo accettare di far nostro questo sguardo. La domanda è però come guardare a questo tempo con gli occhi della fede, come interpretarlo, come viverlo alla luce della Parola.

Più che ai quarant’anni nel deserto, oggi il nostro tempo mi pare analogo a un altro momento della storia di Israele; il momento centrale della sua vicenda, attorno a cui ruota tutta la predicazione profetica, il vero punto di svolta della fede del popolo eletto: l’esperienza dell’esilio a Babilonia.

Israele subisce in quel momento la più grande umiliazione possibile. Gerusalemme conquistata. Il tempio distrutto. Il popolo deportato in terra straniera. Tutto sembra finito. Come oggi, non si scorge alcun futuro promettente all’orizzonte. I profeti avevano messo in guardia Israele, ma il popolo non ha dato loro retta e quanto era stato preannunciato si è realizzato. Il popolo nato dalla promessa di Dio ad Abramo di una terra e di una discendenza si ritrova senza patria, mescolato ad altri popoli. La nazione che aveva come primo comandamento “non avrai altri dei di fronte a me” (Es 20,3) si ritrova ad abitare una terra popolata di divinità straniere.

Come ha vissuto Israele questo passaggio terribile della sua storia? La cosa sorprendente è che questo momento, invece di essere la fine di tutto, sarà il vero inizio della vicenda e della fede di Israele. L’esperienza dell’esilio produrrà un sussulto nella coscienza del popolo che gli permetterà di rileggere tutta la sua storia e interpretarla in una chiave nuova. La riflessione teologica di questo periodo porterà alla stesura definitiva della Torah, che racchiude la fede più matura di Israele, nata proprio dall’esperienza dell’esilio. Israele riconoscerà la propria infedeltà all’alleanza con Dio, ma, insieme, la promessa che ancora JHWH non smette di offrire. Sarà questo sguardo nuovo verso la propria storia e la fede in un Dio che continua a dischiudere davanti un futuro promettente a consentire un nuovo inizio. E quando finalmente potrà tornare a Gerusalemme, ciò che l’esilio ha fatto maturare nella coscienza del popolo gli consentirà di dare inizio a una nuova storia, che arriva fino a noi oggi.

Credo che guardare il tempo che stiamo vivendo guidati dalla luce della fede e della Parola significa provare a ripercorrere anche noi oggi le orme di ciò che fece Israele attraversando l’esilio. Rifiutando la tentazione della rassegnazione. Ritrovandoci, seppure dispersi per troppo tempo ognuno per conto proprio, parte di un popolo accomunato da un unico destino. Riconoscendo quanto c’era di sbagliato nel nostro modo di vivere e immaginandolo nuovo. Rimettendo a tema i tanti aspetti della nostra vita e della nostra fede che davamo per scontati e che ora non lo sono più. Confidando ancora e nuovamente nella promessa di Dio che non viene mai meno e, anzi, si rinnova ogni volta che la storia segna un punto e chiede un nuovo inizio. Promessa che contraddice ogni nostra rassegnazione, che costringe e autorizza chi la accoglie a guardare al futuro con speranza e lo impegna a trovarne i semi ogni giorno nelle pieghe di questo nostro tempo.

Come cristiani ci è chiesto di essere sale e lievito nella pasta. Forse oggi questo significa essere portatori di uno sguardo così. Insieme come Chiesa, ma anche ciascuno di noi, lì dov’è.