Il problema della Chiesa? È non vedere la bellezza

Un padre anziano, una casa vuota alla periferia di Torino, tre figli lontani, una domenica mattina che non va come doveva andare e si apre all’imprevisto… È il semplice contesto in cui è ambientato “Una domenica” di Fabio Geda, uno dei libri che avevo lì e che grazie alla quarantena sono riuscito ad aprire.

Una vicenda semplice, quotidiana, ma sorprendentemente carica di umanità e di bellezza (e già solo trovare chi rintracci umanità e bellezza nel quotidiano è cosa straordinaria!). Geda è capace di uno sguardo realmente contemplativo, che vede nelle cose non semplici oggetti ma significati, ricordi, segni; e nelle persone tracce di vita e di fragilità, che anche quando diventano incomprensione, rimpianto, tradimento, non riescono a perdere la loro bellezza. Seguendo il racconto ti ritrovi a emozionarti per un anziano che fa colazione al bar, per un ragazzo che va sullo skate, per una donna che fuma in giardino. Scene scontate, che non avrebbero nulla di eccezionale se il tratto di Geda non le inquadrasse da quell’angolazione impossibile capace di far risaltare lo straordinario dove normalmente c’è solo routine.

Non è un racconto che parla di Dio e religione, se non per pochi cenni. Ma è stato capace di provocare la mia fede. In due momenti in particolare. Il primo è quando la protagonista racconta così il funerale della madre:

“C’era un cane che abbaiava il giorno del funerale di mamma e ricordo che tutti si lamentavano. […] Attendevo che una parola delle sacre scritture – era un funerale religioso sebbene nessuno di noi fosse in senso stretto praticante: in famiglia, per scherzare, ci definivamo simpatizzanti – anche una sola di quelle parole mi donasse il conforto che secondo il giovane sacerdote dagli occhi dolci che stava officiando la funzione avrei dovuto ricevere. Eppure lui ci provava. Giuro. Si vedeva che ce la metteva tutta. Ma niente. Io ascoltavo il cane. Alle carezze di quell’umile servo di Dio preferivo la cagnara selvaggia del randagio che mi abbaiava addosso senza ipocrisia che tutto era finito”.

Non ho potuto fare a meno, arrivato a questo punto, di alzare gli occhi dal libro e fermarmi a pensare. Non è, quello che viene descritto, esattamente quanto accade il più delle volte ai nostri discorsi su Dio, sul Vangelo, sulla religione e sulla fede, quando casualmente arrivano alle orecchie non dei soliti della nostra cerchia, ma degli altri, di chi vive nel mondo e al più si definisce “simpatizzante”? Mi colpisce come viene descritto il “giovane sacerdote dagli occhi dolci”. Non vi è traccia di pregiudizio o rifiuto. Vi è anzi il riconoscimento del suo sforzo autentico e sincero. Ma il problema non è lui, è che quello che dice non riesce a far breccia, non è (più) in grado di arrivare all’uomo. Non è mancanza di energia e convinzione da parte del cristiano, non è pregiudiziale assenza di disponibilità a mettersi in discussione da parte di chi ascolta. È che il messaggio, così come viene proclamato, non parla, non raggiunge le corde vibranti nell’anima delle donne e degli uomini del nostro tempo. Quelle corde che invece Geda fa vibrare dall’inizio alla fine del suo racconto.

Personalmente credo che questo sia il primo e vero problema della Chiesa oggi.

Il secondo passaggio che mi ha fatto pensare è proprio alla fine, quando la protagonista racconta cosa ne è stato della casa dei genitori, abitata adesso dalle nipoti, figlie di sua sorella, e dice così:

“La casa di Lungo Po Antonelli è ancora nostra. La usano Greta e Rachele che frequentano l’università a Torino. È bello che la usino loro due, che sia sempre piena di loro amiche e di loro amici, che si senta odore di marijuana e che ci facciano l’amore. Ed è bello che noi tre si abbia ancora un luogo in cui tornare di tanto in tanto, così, per dialogare con il tempo che passa e cercare di farci pace.”

Anche qui il mio sguardo si è sollevato, e non solo perché con questa frase si conclude il libro. Ma perché ho provato a pensare con che occhi giudicanti faremmo fatica a non leggere una frase del genere all’interno dei nostri cancelli ecclesiali. Così distanti da quello sguardo capace di dire “è bello… che si senta odore di marijuana e che ci facciano l’amore”. Certo, ci sono qui in gioco questioni da non liquidare superficialmente, ma alla fine del libro personalmente ho provato una profonda nostalgia. La nostalgia di una Chiesa capace di guardare al mondo e alla vita non con le lenti del giudizio ma attraverso uno sguardo che riesce a vedere bellezza anche dove non ci aspetteremmo di trovarla.

Mi chiedo se Gesù, guardando la prostituta, il pubblicano, il ladrone, non abbia avuto uno sguardo così.

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Il mattino di Pasqua dopo il Covid19, tra cocci e sogni

Tornerà tutto come sempre o niente sarà più come prima? Sono domande che ci facciamo tutti in questo tempo di vita chiusa in casa, ingabbiata, come disse Papa Francesco all’inizio della pandemia.

Certo le conseguenze di questi mesi di distanza e videochiamata lasceranno segni indelebili. Penso soprattutto alle famiglie colpite dalla malattia, dal lutto, dall’incertezza lavorativa, famigliare e personale. Alle persone sole, rimaste isolate per così tanto tempo, agli anziani, ma anche ai ragazzi, privati del contatto fondamentale con gli amici, della vicinanza fisica, reale, di insegnanti ed educatori, che nessuna lezione a distanza potrà mai sostituire nella loro presenza educativa – e non solo istruttiva – fatta di sguardi, gesti, attenzioni…

Tutto questo lascerà in noi scorie e cocci, che con sapienza ci sarà chiesto di prendere in mano e provare a ricomporre. Saremo chiamati probabilmente per diverso tempo a rispettare norme igienico-sanitarie che contribuiranno a modificare ulteriormente le nostre abitudini e il nostro stile di vita. Ma se provo a pensare al domani, vorrei davvero non fosse solo questo. Non fosse cioè solamente un raccogliere cocci e rispettare nuove regole. A queste componenti, che senz’altro vivremo, sogno se ne aggiunga un’altra…

Il tempo che stiamo vivendo, alla luce della Settimana Santa da poco vissuta, mi appare molto pasquale. Sia in senso etimologico – è un tempo di passaggio – sia facendo riferimento alle vicende bibliche che la Pasqua ebraica e quella cristiana rievocano. In tanti hanno messo in luce la similitudine tra il nostro tempo e quello di Israele nel deserto, quello dei discepoli, chiusi in casa per la paura. Stretti tra un passato rimpianto – “Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cetrioli, dei cocomeri, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra gola inaridisce; non c’è più nulla” (Nm 11,5-6) – e un futuro ancora indecifrabile – “Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute” (Lc 24,21).

Ma il tempo del deserto, lo sappiamo, non è solo un tempo di aridità e privazione. Biblicamente è un momento di intimità, con sé e con Dio, nel quale siamo ricondotti all’essenziale e maturano i sentimenti più veri, i desideri più profondi, le scelte più feconde.

Sono tantissime le provocazioni che questa quarantena offre alla nostra vita, alla riflessione sul senso di quello che viviamo, sulle nostre abitudini e su cosa vi dia realmente significato; alcune cose oggi ci appaiono con una chiarezza inaudita. Il valore del lavoro, delle relazioni, l’insufficienza del web come strumento per viverle, la consapevolezza di essere “tutti sulla stessa barca”, non delle monadi autosufficienti, ma parte di un popolo, di un mondo, in cui quello che io vivo appartiene anche all’altro e quello che io faccio riguarda tutti. Tantissime dinamiche delle nostre società a cui eravamo assuefatti, emergono in tutta la loro contraddittorietà: un capitalismo presentato come panacea di tutti i mali che si mostra insufficiente e inadeguato – se non di ostacolo – alla sfida della pandemia; lo stridore del confronto tra gli investimenti in armamenti e quelli per la spesa sanitaria; città simbolo di efficienza e modernità che annaspano e rischiano il collasso; una politica fatta, con le dovute eccezioni, da VIP improvvisati che non sanno come barcamenarsi, stretti tra la volontà di preservare il consenso e la necessità di applicare misure che la competenza di altri suggerisce. Per non parlare delle enormi provocazioni che la sospensione delle Messe, la loro sostituzione con lo streaming senza popolo, lo spostamento del luogo ecclesiale nel contesto famigliare, e mille altre cose, pongono alla vita della Chiesa e al suo futuro.

Quello che sogno è che di queste evidenze di oggi, domani possiamo fare tesoro. Quando potremo, impegniamoci a creare luoghi e momenti per incontrarci, ascoltarci e raccontarci, affinché, con discernimento, possiamo abbandonare rivalità e contrapposizioni e raccogliere insieme la novità – la manna nel deserto, il sepolcro vuoto il mattino di Pasqua – che questo tempo ci consegna. E deciderci a desiderare uniti un mondo nuovo, una Chiesa nuova, relazioni nuove – la Terra Promessa, l’incontro col Risorto, che dà la forza di partire senza indugio. Che il domani non sia un oscillare tra la nostalgia di ieri e i cocci di oggi, ma possa essere soprattutto un desiderio da realizzare insieme. Se così sarà, constatare che “Niente è più come prima!” non sarà solamente un rimpianto.

Dov’è Dio nel tempo del Coronavirus?

In questo tempo di Coronavirus, come ogni volta che la nostra umanità è toccata dalla prova, dal dolore, dalla sofferenza, chi crede, e a suo modo anche chi non crede, sente potente emergere la domanda: dov’è Dio? Perché non fa nulla se è onnipotente? Perché ci ha abbandonati a questo destino?

Non manca chi, provando a rispondere, si affretta a parlare di castigo divino, come conseguenza dell’indifferenza e dei peccati dell’uomo. Immaginando dunque un dio che assume i tratti del mitico Zeus, che dall’alto dell’Olimpo scaglia i suoi fulmini nella sua ira.

Effettivamente se si va a leggere determinate pagine dell’Antico Testamento parrebbe proprio che anche il Dio cristiano si comporti in questo modo. C’è però un’immagine nella Bibbia che fa a pugni con tutto questo, un’immagine di fronte alla quale ogni idea di un Dio che punisce e castiga crolla inesorabilmente: è l’immagine di Gesù sulla croce. Un Dio crocifisso, massacrato di botte senza nemmeno alzare un dito per difendersi. Come può essere quello Dio onnipotente? È la domanda che sconfigge la fede anche di chi aveva seguito Gesù lungo tutto il suo percorso. Non possono far altro che andarsene “col volto triste”, dicendosi “Speravamo che fosse lui a liberare Israele…”, ma ora è tutto finito.

Un po’ come noi, che speravamo tante cose, avevamo progetti, lavori, sogni per questo periodo, e ora ci troviamo confinati, senza certezze, costretti in casa senza sapere quando tutto questo finirà.

Dov’è Dio? Trovo interessante che questa domanda si espressa in forma spaziale. Ci si domanda il luogo in cui sia Dio, dando per scontato che, siccome qui non si intravede per nulla la sua presenza onnipotente, sia senz’altro altrove. È curioso: quando ragioniamo su Dio subito pensiamo alla sua onnipotenza. Forse perché è la caratteristica che più lo distingue da noi, la cosa che più ci piacerebbe provare se mai ci capitasse di diventare Dio (andatevi a rivedere in questo tempo a casa “Una settimana da Dio” con Jim Carrey, meraviglioso da questo punto di vista!). Il punto è che per noi cristiani è piuttosto complicato capire cosa significhi che Dio è onnipotente. Fai la prova: guarda un crocifisso e, come faceva don Camillo, prova a parlarci, e digli: “Come sei onnipotente Dio mio! Vorrei proprio essere come te!”. Stride tutto! Non torna nulla di quello che abbiamo in mente! Il crocifisso è esattamente il contrario dell’onnipotenza e di tutto ciò che noi aspiriamo ad essere.

Per fortuna c’è un modo più semplice di pensare al Dio di Gesù, che proprio la domanda “dov’è Dio” può aiutarci a risvegliare. La teologia, tra gli attributi di Dio, insieme all’onnipotenza, all’onniscienza, ecc… ci consegna anche quello dell’onnipresenza. Dio che è sempre presente, in ogni luogo, in ogni situazione. Apparentemente ci è più difficile pensare a un Dio onnipresente che a un Dio onnipotente, ma se andiamo più in profondità ci rendiamo conto del contrario.

Dov’è Dio? Perché non fa nulla se è onnipotente? Perché ci ha abbandonati a questo destino?

Il Dio di Gesù è il Dio che ha usato la sua onnipotenza per poter essere presente in ogni situazione umana. Quel Dio crocifisso è l’immagine di ogni sofferenza umana. Dio ha voluto entrarci nella nostra sofferenza, per poterci essere accanto in ogni situazione. Dov’è Dio? Credere nel Dio di Gesù ti consegna la certezza che Dio è lì con te, ieri, oggi e sempre. È nei reparti di terapia intensiva, è accanto alle file di bare ammonticchiate, è dietro ogni lacrima che ti riga il viso. Ed è lì non solo per consolarti, ma per dirti che quel male, quel dolore, quella morte non sono l’ultima parola sulla tua vita. Per dirti che lui ci è passato, sa che dopo il buio c’è ancora luce, dopo il tempo del sepolcro c’è il tempo della resurrezione.

Questa fede in un Dio onnipresente, ci svela allora anche il senso di Dio onnipotente. Onnipotente nel vincere la notte, vincere le tenebre e il buio. Non vengono da Dio il dolore e la sofferenza, noi veniamo da Dio invece, per questo quelli saranno sconfitti e noi vivremo. La fede in Gesù ci dice che al di là e in tutto quello che stiamo vivendo c’è ancora una promessa. Ci garantisce che è proprio vero che #celafaremo! Perché il Crocifisso Risorto è con noi, ci accompagna nella notte per condurci a un nuovo giorno di luce.

Il problema è Benigni o l’eros?

Premessa importante per tranquillizzare tutti: il monologo di Benigni sul Cantico dei Cantici non mi è piacito. Così come personalmente apprezzo molto poco tutto ciò che compare sotto i riflettori di Sanremo: un evento che raccatta qua e là indiscriminatamente un po’ di tutto, ci mette su una bella patina brillante e politically correct e se ne serve per fare audience.

Mi sono però divertito – e un po’ sconfortato – a leggere in questi giorni i vari commenti di provenienza per lo più cattolica, alla presentazione del Cantico da parte di Benigni. Per un momento mi sono sentito catapultato indietro di un paio di mesi, al 18 dicembre per la precisione, quando è uscito l’ultimo film di Star Wars e si sono scatenati i commenti incrociati del fandom: gli entusiasti commossi fino alle lacrime contro i delusi arrabbiati invocanti vendetta.

Mi ha fatto riflettere questa chiamata alle armi dei cattolici a difesa o all’attacco di Benigni. Se è vero che la lingua batte dove il dente duole questa vicenda conferma quello che dal mio punto di vista era peraltro già piuttosto evidente: con l’eros come Chiesa abbiamo un problema. È stato sufficiente a Sanremo accostare la parola Bibbia con la parola eros che siamo saltati su come un Jedi nerd davanti alla risurrezione di Palpatine.

Non serviva certo questa vicenda per dimostrare la fatica che facciamo a parlare dell’eros nel discorso cristiano. Credo sia il punto su cui la divaricazione tra la dottrina e la prassi dei credenti sia in assoluto più marcata, segno anche questo che un problema c’è davvero, e non è solo un problema educativo ma di sostanza.

Quando c’è un problema il primo fondamentale passo è riconoscerlo e non negarlo, il secondo è provare ad affrontarlo. Mi sento di dire che in questo momento nella Chiesa entrambi i passi siano ancora da compiere. È ancora troppo difficile provare a dire una parola in un senso o nell’altro su questo tema – è molto più facile prendersela con Benigni! -, vi è una polarizzazione esasperata che non consente un dialogo, un discernimento. Eppure è quanto mai necessario avviarlo questo discernimento, perché avere un problema sull’eros non è zoppicare su un aspetto di poco conto, ma su uno dei cardini dell’esperienza umana e quindi cristiana. Le giovani generazioni non sono più disposte a tentennamenti su questo tema, il rischio di apparire poco credibili è enormemente alto. Per questo mi chiedo: quando sarà possibile abbandonare le contrapposizioni, porci di fronte alla realtà e insieme riflettere su cosa lo Spirito – che è novità d’amore – ci suggerisce?

Gli adulti secondo Star Wars

Quando uscì Gli ultimi Jedi, ottavo film della saga di Star Wars, scrissi un articolo – I giovani secondo Star Wars – in cui provavo a mettere in luce le caratteristiche dei giovani per come come emergono nell’episodio precedente, Il risveglio della forza. Oggi esce il nono film della saga e, riguardano Gli ultimi Jedi, mi è venuta l’ispirazione per scrivere il sequel di quell’articolo, prendendo in considerazione stavolta il mondo adulto.

“Non sono i giovani il problema, ma gli adulti” è una frase che si sente ripetere spesso. Gli ultimi Jedi sembra confermare esattamente questa affermazione. I giovani protagonisti del film – Rey, Ben, Finn, Rose, Poe – sono coraggiosi, appassionati, determinati a lottare per quello in cui credono. Il problema sono gli adulti che incontrano, che gli sono costantemente di ostacolo. La relazione tra giovani e adulti è complicata, fatta di incomprensioni, tensioni, conflitti e Gli ultimi Jedi sembra scritto proprio per sottolinearlo.

Il primo protagonista adulto che incontriamo è Luke Skywalker, il grande Jedi eroe della trilogia classica. Il risveglio della forza si chiudeva con la bellissima scena in cui la giovane Rey, dopo mille peripezie per scoprire il luogo in cui Luke si era ritirato, lo raggiunge e gli porge la spada laser, implorandolo con gli occhi di tornare a lottare per la pace e la giustizia nella galassia. All’inizio de Gli ultimi Jedi la scena prosegue: Luke prende la spada dalle mani di Rey… e la getta via! Luke non è più l’eroe leggendario protagonista dell’epopea di Star Wars, non è più il maestro saggio che Rey cercava, da cui voleva imparare. È un uomo depresso, deluso, che si nasconde e non ha più voglia di lottare. Un uomo segnato dal fallimento – un suo allievo, Ben Solo, gli si rivoltò contro, distruggendo la sua scuola e abbracciando il Lato Oscuro – un maestro che non crede più in nulla e rinuncia a trasmettere il proprio sapere – anzi, vorrebbe cancellarlo – perché arrabbiato con la vita, con sé stesso e con la stessa religione Jedi di cui è l’ultimo rappresentante. Interessante il rapporto che Luke ha con la sua fede. In un passaggio molto significativo Rey scopre che Luke “si è chiuso alla Forza”, ossia ha rinunciato a vivere la propria fede. Tuttavia Luke si nasconde proprio nell’isola sacra in cui sono custoditi, all’interno di un albero millenario, i sacri testi dei Jedi. C’è questo paradosso in Luke: è il custode dei testi sacri ma non ha più la fede. Situazione paradigmatica, vera purtroppo non sono “in una galassia lontana lontana”.

Rey cerca in tutti i modi di convincere Luke a tornare, ad addestrarla, al punto di arrivare a duellare contro di lui. Ma è tutto inutile. Se ne andrà delusa dall’isola, per tornare a lottare contro il male da sola.

Chi invece la fede ce l’ha ed è abile ad utilizzarla per perseguire i suoi malvagi scopi è il Leader Supremo Snoke, guida del Primo Ordine, maestro del Lato Oscuro della Forza, che sedusse il giovane Ben Solo trasformandolo nel perfido Kylo Ren. È la seconda rappresentazione di adulto che ritroviamo nel film. Un adulto subdolo e manipolatorio, che persegue i propri interessi seducendo ed usando i più giovani per i suoi scopi. È l’immagine dell’adulto centrato su di sé, in cerca di successo e potere, che utilizza i mezzi più sottili e infimi per circuire i più deboli. Non accetta il fallimento, non sopporta la debolezza. Accusa i più giovani per le loro fragilità e incapacità di soddisfare le sue aspettative (non usa le parole “bamboccioni” o “bimbi viziati” ma il senso è quello) senza farsi scrupolo di umiliarli. È quanto accade con Kylo Ren, suo apprendista, reo di non essere stato in grado di portare a compimento i suoi ordini. La reazione del giovane è furibonda, un crescere di rabbia e desiderio di vendetta (sì, è questo che provocano nei giovani certi atteggiamenti degli adulti), di cui Snoke sembra non curarsi, anzi, che pensa di poter sfruttare a suo vantaggio. Ma Snoke ha sbagliato i suoi calcoli. Appare come potente e invincibile, ma si rivelerà un essere accecato dal suo ego. Convinto di poter disporre degli altri a suo piacimento, di avere tutto sotto controllo, verrà ucciso con l’inganno da Kylo Ren e Rey, in una scena epica in cui i due giovani rivali, per una volta, lottano insieme. È forse il colpo di scena più inatteso del film la morte di Snoke. A metà della trilogia viene tolto di scena il principale antagonista della storia. Ci leggo in questa scelta degli sceneggiatori un riferimento al contesto odierno, fatto di uomini forti che passano in pochissimo tempo da un successo clamoroso alla perdita di tutto ciò che avevano costruito, il più delle volte proprio perché commettono l’errore di credersi invincibili.

Una terza rappresentazione del mondo adulto la troviamo nell’enigmatico DJ, un apricodici (un hacker sostanzialmente) che Finn e Rose ingaggiano per poter violare il computer della nave di Snoke e permettere alla Resistenza di fuggire dalla morsa del Primo Ordine. Durante la missione i tre vengono catturati e DJ tradirà Finn e Rose stringendo un accordo col Primo Ordine per ottenere la libertà. DJ è l’immagine dell’adulto indifferente, opportunista, che non si schiera, fa di tutta l’erba un fascio e tiene solo al proprio tornaconto personale: “buoni, cattivi: parole vuote. È tutta una macchina, bello. Vivi libero, non schierarti” è l’insegnamento di vita che DJ regala ai due giovani. Finn non ci sta e dopo il tradimento si scaglia contro di lui con parole di fuoco. “Tranquillo, oggi loro fanno saltare te, tu domani loro. Sono solo affari” è la sua risposta. “Ti sbagli” gli ribadisce Finn. “Forse…” chiude DJ, e se ne va.

Non ci sono solo rappresentazioni negative degli adulti nel film, ma le figure positive sono diverse da come siamo abituate a pensarle e ce le aspetteremmo. Hanno una caratteristica in comune: non appaiono eroi. Gli ultimi Jedi sembra suggerire che gli adulti svolgono compiutamente il loro ruolo quando rinunciano a fare gli eroi e scelgono di svolgere il proprio compito per quello che sono.

Bellissima è la figura Leia, – interpretata dalla compianta Carrie Fisher – la Principessa della Ribellione, a capo della Resistenza. Nonostante i suoi trascorsi eroici nel film non fa nulla di eroico, anzi, apparentemente non fa proprio nulla. In una delle prime scene la sua nave subisce un attacco e Leia rimane gravemente ferita e incosciente. Resta in questa condizione per gran parte del film, e quando si risveglia non ha un ruolo attivo nella lotta contro il Primo Ordine. È rappresentata per lo più mentre riflette, pensa – “serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” ops… lapsus…- e spera. Leia è donna dalla Speranza incrollabile, ed è questo il suo contributo decisivo alla causa. Ha uno sguardo che va oltre le difficoltà, oltre la tragica fine a cui la Resistenza sembra andare incontro. E contagia chi le è vicino con la forza della sua Speranza. Quanto abbiamo bisogno di adulti così!

Ma emblematica è la figura del Viceammiraglio Amilyn Holdo, chiamata a sostituire Leia alla guida della Resistenza. Appare come una maestrina antipatica e inconcludente, agli occhi dello spettatore e a quelli del giovane Poe Dameron, che vorrebbe prendere in mano la situazione a suo modo: lottando. Holdo predica calma in una situazione disperata – la nave della Resistenza, a corto di carburante, è inseguita dalla flotta del Primo Ordine – e viene da pensare che non abbia minimamente idea di cosa fare. Poe le si oppone in tutti i modi, provando a elaborare un piano per conto suo, mettendo in atto un ammutinamento… Solo alla fine si scoprirà che Holdo persegue un piano efficace, molto più di quello dell’indomito Poe. Solo alla fine ci si rende conto della saggezza e della determinazione di questa donna, che arriverà a dare la vita per permettere alla Resistenza di salvarsi. È l’anonima Holdo a dare una lezione all’aspirante eroe Poe. Una lezione di saggezza, responsabilità ed equilibrio, qualità che mancano al giovane. La Resistenza è salva non grazie a un eroe, ma grazie a una donna che non si cura delle apparenze, è capace di tenere la barra dritta nelle difficoltà e di donare la vita per quello in cui crede.

La necessità di adulti che non siano eroi è espressa emblematicamente anche dalla parabola che Luke Skywalker vive nel corso del film. Dopo la partenza di Rey dall’isola sacra dei Jedi, Luke, sempre più sfiduciato, riceve in visione la visita di Yoda, il maestro che lo aveva addestrato quando era lui ad essere giovane. Yoda viene in soccorso del suo vecchio apprendista dandogli un’ultima grande lezione. Luke è convinto che la sua debolezza, il suo fallimento siano insuperabili. Ragiona ancora da eroe: un eroe non può fallire. Yoda gli svela che il compito di un maestro è trasmettere ciò che ha imparato: “vigore, controllo, ma debolezza, follia, fallimento anche. Sì, fallimento soprattutto! Il più grande maestro il fallimento è”. Queste parole squarciano il vuoto in cui Luke si era rifugiato, fanno crollare l’eroe e risorgere l’uomo e la fede. E il grande Jedi troverà la forza di rialzarsi, di andare in soccorso dei suoi amici, di dare la vita: distrutto dalla fatica ma finalmente in pace, dopo aver contribuito in modo determinante alla sopravvivenza della Resistenza, in una scena stupenda, morirà contemplando un meraviglioso tramonto.

Mi piace inserire una postilla legata al tema della fede: Yoda, compie un gesto che destabilizza Luke nelle sue certezze: con un fulmine incendia l’antico albero dei Jedi e i libri sacri in esso custoditi. Luke, sconcertato, chiede: “quindi è tempo che l’ordine dei Jedi scompaia?” e Yoda risponde: “tempo è che tu guardi oltre una pila di vecchi libri”. Messaggio fortissimo se proviamo a riferirlo alla nostra Chiesa.

Gli ultimi Jedi scandaglia in profondità il mondo adulto, provocandolo alla radice. C’è un mondo adulto depresso, arrogante, indifferente, ma ci sono anche adulti silenziosi, capaci però di sperare, di svolgere in silenzio il proprio compito, di accettare i fallimenti, di dare la vita. Questi sono gli adulti di cui i giovani hanno bisogno. Il modo più bello di pensarsi come adulti lo ritrovo riassunto nell’ultima frase che Yoda consegna Luke: “noi siamo il terreno su cui essi crescono, questo è il vero fardello di tutti i maestri”.

Che senso ha a 18 anni dedicare la vita alla figlia malata?

Cosa può spingere una giovane donna ad accogliere una vita che arriva nel momento meno opportuno? Certo, ci sono implicazioni etiche e morali, ma al di là di ciò che è giusto o non è giusto, di ciò che si deve o non si deve fare – sappiamo che le decisioni spesso vengono prese a partire da altri criteri – cosa può spingere a decidersi per il sì a una vita inattesa? E se quella vita arriva a diciott’anni, se il padre non vuole saperne di fare la sua parte? Se quella vita arriva fragile, debole, segnata dalla malattia, cosa può spingere una giovane donna ad accoglierla?

Questi interrogativi mi ha lasciato l’intervista de Le Iene, andata in onda un paio di settimane fa, a Beatrice, mamma di Micol, nata con la malformazione del gene wwox; una malattia degenerativa che la rende apparentemente assente, incapace di parlare e di camminare, costantemente in preda a crisi epilettiche e respiratorie che rendono necessario attaccarla a un respiratore diverse ore al giorno. Nel mondo solo altri venti bambini soffrono di questa patologia e, a causa della sua rarità, non sono mai state studiate cure apposite.

Il servizio di Veronica Ruggeri vuole dare risalto mediatico a questa vicenda, nella speranza che qualche medico possa decidersi a prendersi a cuore Micol studiando una cura specifica, come è avvenuto per Mila Makovec a Boston, dove per la prima volta è stato creato un farmaco personalizzato per curare un solo paziente.

Ma al di là del fine per il quale è stato realizzato questo servizio, a me ha colpito la testimonianza di vita di Beatrice. Emerge con un’evidenza impressionante la forza e la bellezza di questa giovane di 21 anni, che ha dedicato gli ultimi due a prendersi cura di Micol. Nel sevizio non si accenna nulla sulla scelta di Beatrice di accogliere e prendersi cura di questa vita, tuttavia la domanda si impone. E la cosa straordinaria è che la risposta arriva senza traccia di moralismi.

Quando Beatrice resta incinta ed è combattuta su cosa scegliere non incontra alcun imperativo etico con cui fare i conti. Sua mamma – che ora a tempo pieno aiuta Beatrice a prendersi cura di Micol – con un rispetto e una delicatezza straordinari, le dice semplicemente: “sappi che dentro di te c’è la vita, poi la decisione spetta a te”. Beatrice va alla prima ecografia e, racconta: “Sono rimasta un po’ scioccata, vedevi tutta la bimba fatta, con le manine, tutte le ditine… e ho detto, no, la tengo, non ha senso, perché devo buttarla via?”.

Credo sia una testimonianza bellissima. Una ragazza di diciott’anni, appena affacciata alla vita, che sceglie di lasciarsela stravolgere perché innamorata dell’ecografia della sua bimba. Non per dovere, non per un’imposizione morale: per la bellezza. Alla faccia di tutto quello che si dice sui giovani e sugli adolescenti oggi!

Ma la testimonianza di Beatrice non si ferma qui. Quello che colpisce della sua intervista è il sorriso. Beatrice sorride tutto il tempo, mentre tiene tra le braccia quella bambina dallo sguardo vitreo, che in continuazione spalanca gli occhi in preda alle sue crisi. Mentre la accudisce, la attacca e stacca dal respiratore, la assiste durante la fisioterapia. Tutto ciò che nell’immaginario dovrebbe rappresentare lo strazio di una madre che si ritrova con una figlia malata e sofferente, Beatrice l’affronta col sorriso, oserei dire con gioia. Il viso le si bagna di lacrime solo per la gratitudine verso quella che definisce la loro “dottoressa del cuore” e quando parla dell’aspettativa di vita dei bambini con questa malformazione che in America è fissata a tre anni: “ma noi a tre anni ci arriviamo sicuro, anche dopo! Perché Micol ha stupito tutti e stupirà ancora!”. Beatrice guarda Micol e non vede una bambina malata, vede il senso della sua vita, il compito che le è affidato, la bellezza di cui è innamorata.

Personalmente mi ha fatto bene ascoltare la testimonianza di Beatrice. Mi ha aperto gli occhi, mi ha fatto vedere che accogliere una vita, anche se fragile e malata, non è solo moralmente e cristianamente giusto ma può racchiudere in sé una bellezza inaspettata; che dedicare l’esistenza a prendersi cura di una vita malata può non essere una vita sacrificata, può essere una vita che trova un senso, in un modo inatteso e impensato.

Non vi è alcun accenno religioso nel servizio, ma credo che noi cristiani abbiamo bisogno di testimonianze così. Abbiamo bisogno di vedere e toccare che quello che la nostra fede ci consegna è possibile, è vero, è bello. Che quanto la fede suggerisce non è per la morte ma per la vita, non è per appesantire l’esistenza ma per offrire un senso nuovo. Non è sacrificio, è – cosa radicalmente diversa – vita che si dona e trova il suo senso donandosi. Abbiamo bisogno di fare un passo in più rispetto al solo discorso morale, che è fondamentale, ma non basta a muovere la libertà se non è accompagnato dall’evidenza di una bellezza e di un senso possibili. Quell’evidenza che io ho colto nel sorriso di Beatrice mentre tiene tra le braccia la sua Micol.