La storia di Israele

OBBIETTIVI: conoscere la storia di Israele nel suo sviluppo, dall’epoca di Abramo fino alla definitiva perdita di autonomia politica con la conquista da parte dell’Impero romano.

TIPOLOGIA DI LEZIONE: lezione frontale, con momenti di discussione insieme, con ausilio di slide e video.

TEMPO DEDICATO: 6-8 ore, più la verifica.

VALUTAZIONE: al termine del modulo verrà somministrata una verifica scritta.

SVOLGIMENTO DELLE LEZIONI:

Per la presentazione della storia di Israele utilizzo alcune slide che ho preparato (scaricabili da qui). Qui di seguito riporto i contenuti a commento di ciascuna. Chiaramente, essendo il target di riferimento dei ragazzi di prima superiore, alcuni passaggi e alcune vicende, molto più complesse di come sono qui raccontate, sono necessariamente semplificati.

Nella prima slide, per introdurre il popolo di Israele, ho scelto di inserire uno degli elementi più caratteristici della religione ebraica: il tetragramma sacro. Commentando questa slide chiedo ai ragazzi se conoscono questo segno e, provocatoriamente, se sanno come si pronuncia. Spiego quindi che JHWH è impronunciabile. Nella lingua ebraica l’alfabeto è infatti composto solo da consonanti, mentre le vocali sono rappresentate da puntini o trattini posti sotto le lettere. Per tutte le parole ebraiche che troviamo nella Bibbia è presente la vocalizzazione, tranne che per il tetragramma sacro, che dunque oggi non sappiamo come si pronunciasse. Questo perché JHWH per Israele è il nome di Dio e per l’ebraismo il nome di Dio non si può pronunciare: “Non pronuncerai invano il nome del Signore tuo Dio” (Es 20,7). Il nome di Dio veniva pronunciato solamente una volta all’anno dal Sommo Sacerdote in occasione della festa dello Yom Kippur. Per questo motivo nella Bibbia è stata omessa la vocalizzazione.
Prima di mostrare questa seconda slide chiedo alla classe come facciamo noi, oggi, a conoscere la storia di un popolo le cui origini risalgono a diversi millenni fa. Normalmente la prima risposta che viene data è che noi conosciamo la storia di Israele attraverso la Bibbia. Giusto, ma – faccio notare – la Bibbia non ha propriamente una finalità storica: è un testo religioso utilizza immagini, racconti, schemi letterari che mascherano e in alcuni casi alterano la verità storica (vedremo meglio questo concetto più avanti). Per verificare se quanto contenuto nella Bibbia sia veritiero da un punto di vista storico dobbiamo confrontarlo con altre fonti: l’archeologia in primis, e poi le fonti scritte extra bibliche. Come esempio di queste ultime porto la Stele di Merenptah, ossia il testo più antico che abbiamo in cui troviamo riportato il nome del popolo di Israele. Essa, ritrovata in Egitto alla fine dell’800, celebra le vittorie il Faraone Merenptah in una spedizione a Canaan compiuta tra il 1209 e il 1208 a.C. e tra i popoli nominati figura Israele: è la testimonianza che intorno al 1200 a.C. in quel territorio era presente un popolo chiamato Israele.
Tornando al testo biblico, spiego anzitutto che la Bibbia cristiana è divisa in Antico Testamento e Nuovo Testamento e che qui prenderemo in considerazione il primo, in quanto il secondo è costituito da testi cristiani. Spiego che per la maggior parte i libri dell’AT sono scritti in ebraico (per curiosità ho inserito nella slide l’alfabeto ebraico), tranne i più recenti scritti in greco. In totale i libri dell’AT sono 46. La Bibbia non è un normale libro, scritto da un unico autore e suddiviso in capitoli (come ad esempio è il Corano). La Bibbia è un testo composto da tanti libri diversi. Ciascun libro si differenzia dagli altri per autore, per genere letterario (abbiamo testi mitici, testi poetici, testi narrativi…) e per epoca (la stesura dell’AT inizia intorno all’VIII secolo a.C. e termina nel I secolo a.C.). Più che un libro la Bibbia è una biblioteca. I diversi testi dell’AT possono essere suddivisi in quattro gruppi:
– La Torah (o Pentateuco): i primi cinque libri della Bibbia (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio), che sono i testi fondanti per la religione ebraica (come i Vangeli per il cristianesimo).
– I libri storici: testi per lo più narrativi che raccontano le vicende del popolo di Israele comprese all’incirca tra il 1200 a.C. e il 100 a.C.
– Libri profetici: testi che hanno come titolo il nome del profeta cui si riferiscono (i più importanti sono Isaia, Geremia ed Ezechiele) e che raccolgono le parole della predicazione dei profeti. Sono questi testi i più antichi che troviamo nell’AT. Gli studiosi indicano in Amos e Osea i due libri più antichi della Bibbia, scritti intorno alla metà dell’VIII secolo a.C.
– Libri sapienziali: sono testi molto vari, alcuni poetici (Salmi, Cantico dei Cantici), altri che raccolgono meditazioni sulla fede di Israele e sul modo di vivere da giusti davanti a Dio. Sono scritti in epoche diverse. Il libro della Sapienza, che rientra in questo gruppo, è il libro più recente dell’AT, scritto nel primo secolo a.C.
In questa slide metto in luce come la Torah, che troviamo all’inizio della Bibbia e che racconta le vicende collocate più indietro nel tempo (tra il 1800 a.C. e il 1200 a.C.), non sia però tra i testi biblici più antichi scritti. La sua stesura ha inizio, nella sua forma definitiva, dopo il ritorno dall’esilio a Babilonia (538 a.C.) e non è completata prima del 400 a.C.. Questo implica necessariamente che questi testi non possano essere considerati storicamente attendibili in senso stretto, in quanto scritti in un tempo troppo distante dagli eventi che raccontano, per quanto in essi confluiscano senz’altro tradizioni orali molto antiche che hanno una loro attendibilità. Si può anticipare qui quello che poi verrà sviluppato in seguito, ossia come il momento in cui la fede di Israele giunge a maturazione è l’esperienza dell’esilio a Babilonia (586 a.C.) e il ritorno dall’esilio. Dopo questa esperienza fondamentale il popolo di Israele inizia a mettere per iscritto la propria fede, ma lo fa attraverso uno sguardo retrospettivo: prende le tradizioni orali del passato e le riempie con i contenuti di fede del presente. Scrive di un popolo schiavo in Egitto che viene liberato, secoli prima, avendo in mente l’esperienza dell’esilio a Babilonia e il ritorno dall’esilio appena vissuti. Questo troviamo nella Torah: l’esperienza di fede, le leggi, gli usi e i costumi del V secolo espressi narrativamente attraverso racconti antichi e collocati indietro nel tempo.
In questa slide si fa sintesi rispetto alla domanda sull’attendibilità storica della Bibbia, mettendo in luce anzitutto la finalità per la quale questi testi sono scritti: non una finalità storiografica ma volta a narrare l’esperienza di fede che il popolo di Israele ha vissuto nella storia, attraverso le diverse vicende che hanno contraddistinto l’alleanza tra Dio e il suo popolo. La prospettiva della Bibbia è una prospettiva di fede, non una prospettiva storica. Ciò non significa che in essa non siano riportati anche eventi realmente accaduti dal punto di vista storico. La storicità di quanto raccontato va però verificata.
Attraverso questa slide faccio un riassunto delle vicende più antiche del popolo di Israele per come vengono narrate nella Torah. Spiego ai ragazzi che il motivo per il quale qui ne faccio solamente una sintesi veloce è che esse hanno poco interesse da un punto di vista storico, mentre ne hanno molto dal punto di vista della fede di Israele, per questo le riprenderemo nel modulo successivo dedicato ai testi fondamentali per la fede ebraica.
Passando ai libri storici, troviamo le vicende attraverso le quali ci viene narrata la progressiva conquista della Terra Promessa, nel libro di Giosuè (successore di Mosè alla guida del popolo di Israele) e nel libro dei Giudici (che non hanno niente a che fare con l’ambito giudiziario: erano dei condottieri che guidano il popolo in una fase caratterizzata ancora da una strutturazione tribale). Nella cartina sono riportati i popoli che abitavano Canaan prima della conquista di Israele. L’aspetto che emerge raccontando questo momento della storia di Israele è il tema della guerra che il popolo mette in atto per conquistare la terra. Ed è l’occasione per riflettere sul modo corretto di leggere la Bibbia. Per questo propongo ai ragazzi la lettura del racconto della presa di Gerico (Gs 6).
Il racconto della presa di Gerico ci mette di fronte in modo inequivocabile alla rappresentazione di un Dio sanguinario, che non solo ordina la conquista di una città abitata da un altro popolo (ma Dio non è signore di tutti i popoli? Perché preferisce un popolo a un altro?) ma pretende lo sterminio di tutto ciò che vive: uomini, donne, giovani, vecchi e animali. Come è possibile che nella Bibbia ci sia una tale rappresentazione di Dio? Con i ragazzi a questo punto apro la discussione, chiedendo loro di provare a ragionare e a rispondere alle domande riassunte nella slide successiva:
Terminata la discussione spiego ai ragazzi come dobbiamo accostarci a passi come questo:
Due aspetti sono fondamentali per leggere correttamente episodi come quello della presa di Gerico.
– Il primo riguarda una delle caratteristiche più importanti del testo biblico: la Bibbia non ci presenta un’unica immagine in sé coerente di Dio. Piuttosto troviamo in essa una polifonia di immagini, spesso in contraddizione tra loro: il Dio misericordioso e il Dio che comanda la guerra, il Dio punitore e il Dio che dona gratuitamente, il Dio giusto e il Dio sterminatore… Questo perché, semplificando, ciascun libro della Bibbia ci testimonia la particolare immagine di Dio che l’autore del testo ha inteso e crede. La Bibbia è scritta da uomini, non è dettata da Dio; per questo autori diversi descrivono immagini di Dio diverse. La Bibbia è la storia di ciò che progressivamente Israele ha compreso di Dio nella relazione con lui. L’immagine di Dio col tempo evolve, soprattutto a partire da ciò che al popolo di Israele accade nella storia. Quando la realtà smentisce ciò che si credeva di Dio, l’immagine di Dio evolve. Quando ad esempio emerge, nel libro di Giobbe, l’esperienza del dolore innocente, l’idea di un Dio che premia i buoni e castiga i cattivi, ampiamente professata in precedenza, va in crisi. È quello che succede anche nel nostro vissuto di fede: ci sono alcuni momenti della vita dove o la fede evolve, oppure finisce. La rivelazione di Dio non è dettata dall’alto, ma è riconoscibile nelle pieghe delle esperienze di fede dei testimoni, teologi e autori della Bibbia: Dio si rivela nella storia e attraverso la storia, guidando l’uomo verso una sempre più veritiera immagine di Sé.
Dal punto di vista cristiano, la definitiva e ultima rivelazione di Dio ha il volto di Gesù Cristo. La fede cristiana riconosce in lui, nelle sue parole, nei suoi gesti, l’autentica immagine di Dio. Ogni immagine di Dio che troviamo nella Bibbia va allora confrontata con questa immagine per comprendere se è coerente o no con il Dio di Gesù.
– Il secondo aspetto che permettere di comprendere episodi come quello di Gerico riguarda una delle caratteristiche della religiosità antica, ossia l’enoteismo. L’ebraismo è monoteista, ma non lo è sempre stato in senso stretto. Come ogni altra religione antica anche Israele credeva infatti che ogni popolo avesse le proprie divinità. Il Dio di Israele è uno solo e si chiama JHWH, ma poi ci sono le divinità degli altri popoli, che esistono a loro volta e sono in competizione con JHWH. L’idea prettamente monoteista per la quale esiste un solo Dio in tutto l’universo, appartiene all’evoluzione più recente dell’ebraismo (dopo l’esilio a Babilonia), in precedenza anche Israele crede nell’esistenza delle divinità di ciascun popolo. Per quanto nella Bibbia troviamo soprattutto descritta la fede monoteista, restano tracce dell’enoteismo precedente, come ad esempio il salmo 82, riportato nella slide, nel quale Dio è rappresentato seduto nell’assemblea dove siedono tutte le divinità della terra. L’enoteismo spiega perché troviamo racconti in cui Dio comanda la conquista di un altro popolo: in questa fase Dio è il Dio di Israele, non degli altri popoli.
Questo aspetto permette di mettere in luce un altro tratto caratteristico della religiosità antica, ossia come in quel contesto dimensione politica/militare e dimensione religiosa fossero strettamente legate: quando due popoli si scontrano in battaglia non sono solo i due eserciti a confrontarsi ma anche le divinità dei due popoli. Una sconfitta non è solo una sconfitta militare, è anche una crisi di fede: le mie divinità sono inferiori alle divinità del popolo che mi ha conquistato. Sarà esattamente questo tipo di riflessione che caratterizzerà la crisi che Israele vivrà con l’esilio a Babilonia.
Una volta che il popolo di Israele ha conquistato una certa porzione di terra avviene il passaggio da un’organizzazione tribale al regno di Israele. È questo il momento d’oro della storia di Israele, il tempo del regno unito, massima realizzazione della promessa di Dio ad Abramo. Per presentare ai ragazzi questa fase cruciale della storia di Israele normalmente leggo con loro alcuni passi biblici significativi. Anzitutto il racconto di 1Sam 8 in cui il popolo chiede un re. Seguirà l’incoronazione di Saul come primo re di Israele. Mi soffermo poi più diffusamente sulla figura di Davide. Il suo regno, insieme a quello di Salomone, è considerato il momento di massimo splendore della storia di Israele. Anche in ottica cristiana la figura di Davide ha un significato importante, dato che il Messia atteso di Israele ai tempi di Gesù aveva la fisionomia del “nuovo Davide” e non è un caso che i Vangeli sottolineino molto il legame tra Gesù e Davide (la nascita a Betlemme, l’appartenenza di Gesù alla discendenza di Davide). Racconto ai ragazzi di come Saul a un certo punto della sua vicenda si allontanò dalla fedeltà a Dio e Dio comandò al profeta Samuele di individuare un nuovo re per Israele.
Leggiamo a questo punto il racconto di 1Sam 16, quando Samuele scende a Betlemme da Iesse, padre di Davide, per ungere re uno dei suoi figli. Di questo racconto si possono sottolineare i criteri attraverso i quali Dio sceglie il nuovo re: Dio non guarda all’aspetto fisico, alla forza, all’apparenza. Dio guarda al cuore. La logica di Dio è diversa dalla logica umana, Dio compie la sua opera attraverso ciò che appare debole e insignificante: sceglie il figlio più piccolo, quello che nemmeno era stato presentato a Samuele ed era rimasto a pascolare il gregge perché era del tutto impensabile che Dio scegliesse come re lui. Questa stessa logica la troviamo nel racconto più famoso che ha Davide per protagonista (l’unico che normalmente i ragazzi già conoscono), quello in cui sconfigge il gigante Golia (1Sam 17). Si può a questo punto fermarsi un momento e riflettere insieme ai ragazzi sul modo con il quale noi guardiamo e giudichiamo le persone, su come spesso anche noi siamo portati a guardare alle apparenze, alla forza, al successo. E provocarli chiedendo perché secondo loro Dio sceglie la piccolezza, la debolezza. C’è una forza anche nella fragilità.
Proseguo raccontando brevemente ai ragazzi l’evolversi della vicenda: la competizione tra Saul e Davide, l’amicizia con Gionata, fino alla fine tragica di Saul e Gionata dopo la quale Davide diventa ufficialmente re. Il motivo per cui Davide è ricordato come il re più glorioso della storia di Israele è la conquista di Gerusalemme, che diventerà capitale del regno. Davide la sottrarrà in battaglia ai Gebusei. Ma nonostante tutta la gloria con la quale Davide è ricordato, la sua vicenda non è senza ombre. Mi soffermo qui sul racconto di Davide e Betsabea (2Sam 11) leggendolo insieme, sia per la bellezza narrativa della vicenda, sia per ciò che essa dischiude rispetto all’agire di Dio nella storia. Davide commette un delitto grave: si appropria della donna di un suo soldato, Uria, che in quel momento era in battaglia per lui, e per coprire la sua malefatta comanda che Uria venga messo in prima linea così che muoia. Un primo aspetto da sottolineare è come Davide non sia perfetto. Dio non sceglie persone perfette. Il cammino della fede non è un cammino verso la perfezione: Dio ti sceglie così come sei, con le tue fragilità e i tuoi limiti. Al racconto del peccato di Davide segue, in 2Sam 12, l’accusa di Davide ad opera del profeta Natan, mandato da Dio, l’ira di Dio che colpisce con una malattia mortale il figlio concepito dall’unione tra Davide e Betsabea e la nascita di Salomone. Due aspetti da sottolineare: il primo è come qui troviamo certamente l’immagine di un Dio punitore, tipica della fede di Israele in questa fase della sua storia, ma che non appartiene in alcun modo alla visione cristiana di Dio. Questa però non è l’unica immagine presente, ce n’è un’altra molto più profonda e significativa: è infatti dall’unione tra Davide e Betsabea – unione frutto di un delitto orribile: adulterio e omicidio – che nasce colui che Dio sceglierà come nuovo re di Israele: Salomone. Questo non sarebbe mai potuto accadere se ci fossimo trovati davanti a un Dio inflessibile: se Dio fosse stato coerente con il suo essere punitore avrebbe ripudiato Davide e il figlio nato da un’unione in tutto peccaminosa. Ma Dio non è un punitore inflessibile. Il Dio biblico non lascia che il male ponga un limite al suo amore. È più grande del male, vince il male, perché anche dal male sa trarre bene. Dio non ha paura del nostro limite, il nostro limite non è abbastanza grande da ostacolare il suo disegno. Anche dal nostro limite Dio sa tirare fuori cose buone. Da peccato di Davide nasce Salomone. Prospettiva bellissime e pacificante.
Spesso emerge da parte dei ragazzi a questo punto la domanda su Betsabea, che non ha un ruolo attivo nella vicenda, passa da Uria a Davide senza proferire parola. Bisogna sottolineare qui il contesto certamente maschilista dal quale nasce questo racconto, un contesto in cui la donna è proprietà dell’uomo e non ha diritto di parola. È importante sottolineare come i racconti biblici siano figli del contesto culturale nel quale sono scritti, dal quale noi oggi doverosamente prendiamo le distanze. Questo permette di sviluppare uno sguardo intelligente nella lettura dei testi sacri, cogliendo il valore di questi racconti, ma senza assolutizzarli, relativizzandoli al contesto. Favorire nei ragazzi un approccio di questo tipo è utile a evitare una lettura ideologica della Bibbia, di qualsiasi segno.
Da ultimo qualche accenno su Salomone, ricordato soprattutto per la sua proverbiale sapienza. Si possono leggere i due racconti più significativi da questo punto di vista che troviamo in 1Re 3: quello in cui Salomone chiede a Dio il dono della sapienza e quello in cui deve giudicare il caso delle due donne madri l’una di un figlio morto e l’altra di un figlio vivo. Con Salomone il regno di Israele raggiunge la sua massima espansione. La cartina riportata nella slide evidenzia il progressivo allargarsi del territori conquistato nel periodo del regno unito. Ma soprattutto Salomone fa costruire il tempio di Gerusalemme.
Per mostrare ai ragazzi come era fatto il tempio di Gerusalemme costruito da Salomone faccio vedere questo video, è un’animazione che mostra una ricostruzione del tempio.

Mentre scorrono le immagini spiego la struttura dell’edificio, i portici, le vasche per le abluzioni, l’altare dei sacrifici, il pinnacolo, la prima sala e poi la sala più interna, il Santo dei santi, dove era conservata l’arca dell’alleanza che conteneva le tavole della legge. Preciso come il tempio fosse diverso dalle sinagoghe. Le sinagoghe erano il luogo di preghiera ordinario, un po’ come le nostre chiese. Il tempio era un luogo straordinario, dove si svolgevano dei riti diversi da quelli delle sinagoghe. In questo l’ebraismo era diverso dal cristianesimo, dove in ogni chiesa, grande o piccola, si svolgono i medesimi riti, ed era più simile all’Islam che ha nel santuario de La Mecca un luogo particolare di culto, dove si svolgono riti diversi da quelli che si vivono in moschea. Ai nostri occhi ciò che avveniva al tempio è assimilabile più a una macelleria che a un luogo di culto. Nel tempio infatti si facevano i sacrifici, in particolare in occasione della Pasqua, quando ogni ebreo era tenuto a salire al tempio. In questo periodo la popolazione di Gerusalemme aumentava a dismisura. I pellegrini, che venivano da tutte le regioni di Israele, normalmente non portavano con sé gli animali da sacrificare, ma li compravano nei pressi del tempio. Per questo intorno al tempio era allestito un grande mercato in cui si poteva acquistare quanto si offriva per il sacrificio. È dentro questa cornice che si può ad esempio comprendere l’episodio in cui Gesù scaccia i mercanti dal tempio (Mc 11,15-19). A seconda della classe sociale di appartenenza si sacrificavano elementi più o meno costosi: le classi povere offrivano elementi vegetali, quelle di fascia media animali di piccola taglia (uccelli o ovini), i più ricchi capi di bestiame più grande (bovini). Il tempio, oltre ad essere un centro religioso, era anche una fonte di reddito importante per le classi sacerdotali, che vivevano di ciò che al tempio veniva offerto.

Proseguendo la carrellata storica, dopo la morte di Salomone il regno si divide: re del regno di Giuda – regno del sud – diventa Roboamo, figlio di Salomone, mentre sul regno di Israele – regno del nord – governa Geroboamo, uno dei generali di Salomone.
La divisione non è solo politica ma, come tipico nel contesto antico dove politica e religione sono strettamente legate, anche religiosa: il regno di Giuda continua ad avere come centro religioso il tempio di Gerusalemme, il regno di Israele si distacca dal tempio e istituisce dei propri santuari di pellegrinaggio: Betel e Dan. Inizia una fase in cui i due regni saranno in opposizione e in competizione tra loro. La divisione nei due regni resisterà per circa due secoli, nei quali si succederanno diversi re alla guida di Giuda e Israele. Nelle slide sono riportati i nomi di tutti i re che si sono avvicendati. Le vicende dei due regni le troviamo raccontate nella Bibbia nel nel secondo libro dei Re e nel secondo libro delle Cronache. Interessante notare il metro di giudizio con il quale i re di Israele e di Giuda sono giudicati dagli autori biblici: non sono considerate importanti la gloria, le imprese militari, le capacità politiche o le grandi costruzioni di cui i re si resero protagonisti. Il criterio attraverso il quale il loro operato è giudicato è la loro fedeltà a Dio. Questo è quello che importa agli autori biblici: la prospettiva è religiosa, non politica.
Ricordiamo qui il contesto geopolitico nel quale i due regni sono inseriti. La terra di Israele si trova nell’unica zona fertile del medio oriente non inclusa nei regni delle due grandi superpotenze dell’epoca: Egitto e Mesopotamia. L’Egitto è caratterizzato da una stabilità politica del proprio impero che dura quasi tre millenni: dal 3100 a.C. al 333 a.C, quando fu conquistato da Alessandro Magno. La Mesopotamia ha una vicenda più travagliata, conosce infatti diverse dominazioni: quella assira, tra l’VIII e il VII secolo, quella babilonese, a cavallo tra il VII e il VI secolo, e quella persiana, dalla metà del VI secolo. La storia del regno di Giuda e del regno di Israele, che non prendiamo in considerazione nel dettaglio, è un costante far fronte, in modo più o meno limpido, a queste due superpotenze, sempre in competizione tra loro, che di frequente compiono spedizioni militari nel tentativo di ampliare la propria influenza. È una storia fatta di alleanze, di battaglie, di tradimenti. Che si conclude in due momenti diversi.
Nel 721 a.C. una spedizione militare assira conquista il regno di Israele, ponendo fine alla sua storia. Gli assiri avevano una strategia di controllo dei territori conquistati tanto crudele quanto efficace: consideravano una minaccia la migliore conoscenza del territorio da parte delle popolazioni indigene; questo vantaggio strategico avrebbe infatti reso difficile reprimere possibili rivolte contro gli occupanti. Per evitare tutto questo, mettevano in atto una deportazione di massa della popolazione verso altre regioni dell’impero e facevano arrivare nei territori conquistati popolazioni di altre regioni. In questo modo gli abitanti del regno di Israele vennero dispersi nell’Impero assiro, si mescolarono ad altre popolazioni e scomparvero come identità culturale e di popolo. La cultura e la religione ebraica che conosciamo, sono eredità e testimonianza della fede del regno di Giuda, proprio perché la discendenza del regno di Israele si interruppe con la conquista assira. Per questo nella Bibbia troviamo il punto di vista sulla storia del regno di Giuda: il regno di Israele è considerato quasi sempre in chiave negativa, soprattutto per aver abbandonato il culto di Gerusalemme ponendosi fuori dall’alleanza stipulata tra Dio e il suo popolo.
In concomitanza con la deportazione degli israeliti, nella regione del regno di Israele, la Samaria, furono fatte arrivare dagli assiri popolazioni straniere. Di questa diversità culturale e religiosa delle popolazioni della Samaria troviamo ancora traccia nel Nuovo Testamento, nel quale i samaritani sono considerati stranieri, proprio perché discendenti delle popolazioni giunte in quel territorio da altre parti dell’impero dopo la conquista assira.
Il regno di Giuda fu più longevo. Mantenne la sua indipendenza fino al 586 a.C., quando venne conquistato dai babilonesi, guidati da Nabucodonosor, che nel frattempo avevano preso il posto degli assiri in Mesopotamia. I babilonesi arrivarono a Gerusalemme e distrussero completamente la città, incluso il tempio di Salomone e l’arca dell’alleanza contenente le tavole della legge. I babilonesi avevano però una strategia diversa di controllo dei territori occupati rispetto agli assiri: anche loro attuavano una deportazione della popolazione, ma limitata alle classi dirigenti politiche e religiose, quelle che più facilmente avrebbero potuto tirare le fila di una rivolta, ma anche quelle che potevano risultare più utili in patria per la loro levatura culturale. Per questo motivo nella Bibbia troviamo racconti con protagonisti ebrei in posizioni altolocate nella corte di Babilonia (Daniele, Ester…).
Nel 539 a.C. i persiani conquistano Babilonia e prendono il posto dei babilonesi. L’anno successivo l’imperatore persiano Ciro, emanando l’omonimo editto, permette il ritorno degli ebrei deportati a Gerusalemme. La Giudea rimane sotto la dominazione persiana, ma Israele ha la possibilità di tornare nella propria patria, ricostruire il tempio e tornare ad avere un’identità culturale e religiosa.
In questa slide la ricostruzione e la piantina del tempio di Gerusalemme ricostruito dopo il ritorno dall’esilio a Babilonia. Più grande del tempio di Salomone, è il tempio esistente al tempo di Gesù. Verrà distrutto dai romani nel 71 d.C. e mai più ricostruito. Oggi sulla spianata dove sorgeva il tempio vi sono due moschee. Del tempio rimane solo il muro occidentale, il cosiddetto “muro del pianto”, che è uno dei luoghi di culto più cari al popolo di Israele. Le considerazioni sulla spianata del tempio oggi può essere accompagnata da foto, facilmente reperibili online. Può essere anche l’occasione per accennare qualcosa della questione israeliano-palestinese oggi.
Ciò che il popolo di Israele vive a Babilonia è descritto in tutta la sua drammaticità nei versi del Salmo 136, ripresi in opere celeberrime, quale ad esempio il Va, pensiero di Verdi, e divenute l’emblema del vissuto delle popolazioni costrette a vivere lontano dalla propria patria.
L’esilio a Babilonia per il popolo di Israele è un momento di fortissima crisi, attraversando la quale però la fede in JHWH giungerà alla sua definitiva maturazione. Come tipico della cultura antica, il fallimento militare non ha solo una rilevanza politica ma anche un importante risvolto dal punto di vista della fede. Essere conquistati da una popolazione straniera, che crede in divinità straniere, era considerata la prova che le divinità dei conquistatori erano superiori alle divinità delle popolazioni conquistate. Il popolo di Israele, deportato e sconfitto, deve far fronte alle domande che questa situazione pone, mettendo alla prova la fede in JHWH. Israele nasce dalla promessa di Dio ad Abramo di una discendenza e di una terra: perché ora la terra della promessa è data ad altri? Può Dio non mantenere le sua sua parola, rimangiarsi le sue promesse? Davvero le divinità dei babilonesi sono più forti del Dio di Israele?
L’esperienza dell’esilio chiede a Israele di ripensare la propria fede, di fare uno scatto in avanti: le risposte di prima non sono più all’altezza della situazione presente: perché la fede di Israele, la relazione tra JHWH e il suo popolo, possa avere un futuro deve rinnovarsi in una forma nuova. È significativo sottolineare con i ragazzi come questa dinamica sia la stessa che vive ciascuno di noi crescendo: da bambini ci hanno parlato di Dio, della fede, della religione in un modo, giustamente, “da bambini”. Crescendo o il nostro modo di pensare e di vivere la fede e la relazione con Dio evolve, matura, oppure alla lunga scompare, perché non è più in grado di dire qualcosa alla nostra vita di adolescenti e adulti. Questa maturazione avviene attraverso momenti di crisi, che sono del tutto normali. Sono momenti di passaggio che conducono a una relazione con Dio nuova, all’altezza del proprio vissuto. Il problema è quando non abbiamo la pazienza di attraversare queste crisi e, per semplificare, chiudiamo i conti con Dio dedicandoci ad altro. Attraversare la crisi chiede pazienza, ma è fecondo. La vicenda del popolo di Israele ce lo testimonia.
Il modo attraverso il quale Israele risponderà alla crisi di fede causata dall’esilio, condurrà il popolo verso la maturità della sua fede. All’idea per cui JHWH è inferiore alle divinità babilonesi a causa della sconfitta militare di Israele, il popolo risponderà compiendo il passaggio dall’enoteismo al monoteismo: esiste un solo Dio, creatore di tutto e Signore di tutti i popoli, ed è JHWH. Le altre divinità non solo altro che “argento e oro, opera delle mani dell’uomo” (Salmo 114): sono nulla, non esistono. Alla domanda sul perché Dio abbia tolto al popolo la terra della promessa, Israele risponderà: non perché Dio non mantiene la parola data, ma perché il popolo si è allontanato da Dio, non è stato fedele; per questo Dio lo ha castigato togliendogli la terra. Ma il castigo di Dio non è per sempre, perché Dio è fedele. JHWH è il Dio che “punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, […] ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni” (Es 20,5-6). Per questo, dopo il castigo, Dio certamente rinnoverà la sua alleanza con Israele e gli concederà di nuovo la terra della promessa: è quanto si realizzerà con l’editto di Ciro. Emerge così un nuovo modello per descrivere la relazione tra Dio e il suo popolo, che caratterizzerà il modo attraverso il quale Israele rileggerà tutta la sua storia, scandito da quattro tappe che si ripetono ciclicamente: 1) Dio che promette e propone l’alleanza. 2) Il popolo che non riesce a rimanere fedele a Dio. 3) L’ira e la punizione di Dio. 4) Dio che concede il perdono e stabilisce una nuova alleanza.
L’esperienza dell’esilio da momento di crisi si trasforma così in evento fondativo per un nuovo inizio, che dà origine al riconoscimento di una nuova identità del popolo e di Dio. Questa nuova identità Israele inizierà a codificarla e metterla per iscritto redigendo i testi della Torah: i primi cinque libri della Bibbia. In questi testi, scritti dopo il ritorno dall’esilio, troviamo la testimonianza della fede ebraica postesilica, ma proiettata indietro nel tempo, attraverso la rielaborazione di racconti più antichi tramandati dalla tradizione orale. Nella Torah i racconti antichi sono riempiti di contenuti nuovi, sono utilizzati per dire la fede di Israele nel momento in cui sono scritti: la fede che ha superato la crisi dell’esilio raggiungendo una maturità nuova. Alcuni passi sono emblematici da questo punto di vista: il libro della Genesi si apre con l’immagine del Dio creatore, un Dio descritto alla luce della maturità monoteista raggiunta dopo l’esilio; la città di origine di Abramo è Ur dei caldei, in Mesopotamia: notazione attraverso la quale emerge come l’origine della fede di Israele, la fede matura di cui parla la Torah, è in Mesopotamia, è l’esperienza dell’esilio a Babilonia; il libro dell’Esodo pone come esperienza fondativa per la fede di Israele la vicenda di un popolo schiavo che viene liberato e si incammina verso la terra della promessa, dalla quale si era allontanato: è l’esperienza che Israele ha vissuto con l’esilio e il ritorno dall’esilio. L’autore di Esodo parla dell’Egitto pensando a Babilonia.
L’aspetto che a questo punto spesso viene fatto notare dai ragazzi è il tema del Dio punitore, così presente nella Torah. Vale da questo punto di vista quanto detto riguardo l’episodio della presa di Gerico: la Bibbia propone tante diverse immagini di Dio, ciascuna figlia del contesto nel quale i testi sono scritti. Dal punto di vista cristiano, Gesù spazza via qualsiasi idea di un Dio che punisce e questo è un punto fisso da sottolineare, anche a dispetto di alcune immagini di Dio che anche noi oggi abbiamo: quante volte ci succede qualcosa di negativo ed esclamiamo “che cosa ho fatto di male per meritarmi questo?”, espressione che racchiude la precisa immagine di un Dio che ti premia se ti comporti bene e ti punisce se ti comporti male. Tutto questo non appartiene in alcun modo alla fede cristiana, ed è importante ribadirlo. D’altra parte però è utile far notare come l’idea del Dio punitore ha un ruolo positivo nell’evoluzione della fede del popolo ebraico al momento dell’esilio: è quel concetto teologico che permette a Israele di superare la crisi che la conquista babilonese aveva prodotto, motivando in un modo diverso ciò che gli era accaduto: non più una sconfitta di JHWH per meno delle divinità babilonesi, ma la conseguenza dell’infedeltà del popolo. Le diverse immagini di Dio sono legate alla storia e anche quelle per noi non più accettabili hanno però avuto un loro ruolo anche positivo nella storia e nell’evoluzione della fede. D’altra parte si può sottolineare anche come nello stesso Antico Testamento troviamo una critica all’idea del Dio retributore, che premia e punisce a seconda della condotta degli uomini. Di fronte all’esperienza del dolore innocente, a quella dei malvagi che prosperano a dispetto dei giusti, che troviamo descritta nei salmi, nel libro di Giobbe, nel libro dei Maccabei – quando a una madre vengono uccisi i suoi sette figli, colpevoli di non aver rinnegato la fede in JHWH (2Mac 7) – l’idea di un Dio retributore appare in tutta la sua insufficienza. La fede ebraica dovrà ancora una volta convertire la propria immagine di Dio. Sarà da questa nuova conversione che prenderà forma in alcune correnti dell’ebraismo l’ipotesi della risurrezione per i giusti.
Nel processo di progressiva maturazione della fede di Israele un ruolo decisivo lo rivestirono i profeti. Come si vede nella slide, queste figure accompagnano tutto il dispiegarsi della storia del popolo ebraico: ci sono profeti nel periodo dei due regni, profeti durante l’esilio a Babilonia, profeti nel post-esilio. Le vicende dei profeti più antichi (Elia e Eliseo) sconfinano nel mito. Sono gli unici due profeti che non hanno un libro a loro intitolato, ma le cui vicende ci sono solo raccontate nei due libri dei Re. I profeti più importanti, anche per la ricchezza e la dimensione dei loro libri, sono invece Isaia, Geremia e Ezechiele. Riguardo il libro di Isaia tuttavia gli studiosi concordano nel sostenere che in esso confluiscono le parole di almeno tre profeti diversi, operanti in tre momenti differenti della storia di Israele; per questo nello schema della slide troviamo indicati in tre periodi distinti il proto-Isaia, il deutero-Isaia e il trito-Isaia.
I profeti non sono dei veggenti, non hanno nulla a che fare con profezie che predicono il futuro, sfere di cristallo e altri elementi simili, tipici dell’immaginario fantasy ma non appartenenti al contesto biblico. Il loro ruolo aveva anzitutto una rilevanza politica: in un contesto nel quale politica e religione erano strettamente legate, i profeti erano i consiglieri di corte del re, che parlavano a nome della divinità. Prima di una battaglia, prima di decisioni importanti, i re consultavano i profeti per chiedere loro se la divinità fosse favorevole o avversa alla scelta in questione. Normalmente nelle corti regali erano rappresentati profeti di diverse divinità, così da ascoltare gli auspici di ciascuna. I re dovevano per questo scegliere del profeta di quale divinità fidarsi: i diversi re di Israele nei testi biblici vengono giudicati anche a partire da quanto hanno dato ascolto ai profeti di JHWH invece dei profeti di altre divinità. Nella Bibbia troviamo la testimonianza di questa compresenza di profeti che parlano a nome di divinità diverse ad esempio nel ciclo di Elia. Per sottolineare questo aspetto si può leggere insieme ai ragazzi il racconto di 1Re 18,20-40, narrativamente interessante, quando Elia sfida i profeti di Baal per dimostrare che JHWH è il Dio vero; racconto molto potente che si conclude con lo sterminio da parte di Elia di tutti i profeti di Baal.
Ma come fanno i profeti a parlare a nome di Dio? La Bibbia ci parla del ruolo del profeta in termini di vocazione. Il profeta è scelto direttamente da Dio per la missione che gli è affidata. Si può leggere da questo punto di vista il bellissimo racconto della vocazione di Geremia (Ger 1,1-10). I profeti sono quindi persone che vivono nella fede una profondissima relazione con Dio. Questo permette loro di guardare la realtà così come Dio la vede, divenendo capaci di interpretare la volontà di Dio nelle vicende che accadono nella storia. Sono inoltre persone profondamente conoscitrici delle dinamiche del mondo e della vita. Non prevedono il futuro, ma la capacità di lettura della realtà con gli occhi della fede permette loro di comprendere ciò che accadrà, in che direzione andrà la storia. Nei due passi del libro di Geremia della slide seguente tutto questo emerge con evidenza.
Siamo alla vigilia della distruzione di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor, re di Babilonia. Il re di Giuda, Sedecia, manda a consultare il profeta Geremia (consigliere di corte che parla a nome di JHWH) riguardo l’esito della battaglia imminente, chiedendo se Dio farà “qualcuno dei suoi tanti prodigi” per salvare Gerusalemme. Il profeta risponde che non c’è nessuna speranza, Nabucodonosor non avrà pietà e distruggerà la città. Come fa Geremia a prevedere l’esito della battaglia? Per prevederlo non sono necessari chissà quali poteri magici, è sufficiente il realismo: se l’esercito di una superpotenza come Babilonia marcia contro un piccolo stato come Giuda, è il realismo a suggerire che non ci sarà scampo. Sedecia si illude che Dio possa intervenire e cambiare la storia, ma Geremia, che conosce la storia e conosce il modo di agire di Dio, denuncia l’ingenuità della visione di Sedecia e lo riporta alla realtà delle cose. Il modo di agire di Dio non è quello che Sedecia spera. Il Dio che ha in mente Sedecia non è il Dio vero.
Nel secondo testo riportato nella slide invece, Geremia, guardando la realtà con gli occhi di Dio, svela il senso di ciò che è accaduto dal punto di vista di Dio. La domanda che si fanno tutti è perché Dio ha lasciato che la città venisse distrutta. Forse il Dio di Israele è inferiore alle divinità dei babilonesi? Geremia, che conosce Dio e sa cogliere nella realtà i segni del suo agire, rivela il senso teologico di ciò che è stato: Dio non è stato sconfitto dagli dei babilonesi, Dio ha punito Israele per la sua infedeltà.
Da questi pochi esempi emerge come il ruolo dei profeti nella storia di Israele sia decisivo. Sono loro il motore della riflessione del popolo su di sé e su Dio.  È grazie a loro che la fede di Israele evolve, superando le diverse crisi che la storia porta con sé. Sono loro che richiamano Israele non solo a rimanere fedeli all’alleanza con JHWH, ma anche a vivere la propria fede in modo autentico, non superficiale. Ci sono passi profetici molto critici contro una religione solo esteriore, una fede che si nutre di riti e sacrifici ma dimentica la giustizia, l’assistenza ai più poveri, la misericordia. Tutti temi che diversi secolo dopo Gesù riprenderà e farà propri.
Proseguendo nella carrellata storica arriviamo al 333 a.C., quando Alessandro Magno conquistato l’Egitto, sconfitti i persiani, annette tutti i territori dell’area, inclusa la Giudea, al suo impero. Con la morte di Alessandro, dieci anni dopo, l’Impero Macedone si sfalda e si divide in tanti piccoli regni. Nell’area mediorientale le dinastie dei Seleucidi e dei Tolomei si spartiscono Mesopotamia e Egitto. Inizialmente la Giudea farà parte del regno d’Egitto, seguirà un periodo di conflitto tra Tolomei e Seleucidi al termine del quale la Giudea passerà sotto l’influenza dei secondi. Come si vede, passano i secoli, cambiano le dominazioni, ma lo schema resta sempre lo stesso: Egitto e Mesopotamia che lottano tra loro e Israele in mezzo.
I Seleucidi promuovono l’ellenismo, corrente culturale che si ispira alla cultura greca , e lo impongono in ambito culturale e religioso in tutti i territori conquistati. Il tempio di Gerusalemme viene profanato e consacrato a Zeus, chi non accetta di ripudiare la religione ebraica viene perseguitato e ucciso. Nel 167 a.C. Giuda Maccabeo e i suoi seguaci si ribellarono ai Seleucidi, dando origine all’ultimo regno libero di Israele, sotto la dinastia degli Asmonei. I re Asmonei progressivamente liberarono sempre più porzione di territorio, nella cartina sono indicati i re Asmonei e i territori riconquistati da ciascuno. L’impresa di Giuda Maccabeo resta scolpita nella storia di Israele e celebrata ogni anno nella festa di Hanukkah, la festa della dedicazione. Giuda Maccabeo è considerato simbolo della forza di Israele, vittorioso in combattimento. Per questo motivo in Israele il nome “Maccabeo” è spesso associato alle squadre sportive (Maccabi Haifa, Maccabi Tel Aviv…), come auspicio di forza e di vittoria.
Israele perde definitivamente la sua indipendenza politica nel 64 a. C., quando Pompeo, triunviro e generale romano, conquista Gerusalemme e annette la Giudea all’impero romano. I romani avevano una politica tollerante nei confronti delle popolazioni occupate: permettevano loro di mantenere la propria tradizione culturale e religiosa, e addirittura di avere dei propri rappresentanti politici. È per questo motivo che nei Vangeli oltre al procuratore romano, Pilato, troviamo anche la figura del re Erode: era appunto il governatore locale, sottomesso ai romani, ma comunque con un proprio spazio di manovra. I romani erano convinti che lasciare un certo margine di libertà alle popolazioni conquistate fosse il modo migliore per evitare rivolte. Questa strategia funzionò bene in diverse parti dell’impero, ma non in Giudea. La Giudea fu tra le regioni peggiori da controllare per i romani, perché Israele, forte della propria identità fondata sulla terra promessa da Dio, non accettò mai il dominio straniero e mise in campo a più riprese rivolte violente, ad opera soprattutto degli zeloti, un vero e proprio gruppo terroristico che si opponeva ai conquistatori. Una grande rivolta scoppiò nel 70 d.C. e per reprimerla l’anno successivo il generale Tito compì una spedizione militare contro gli insorti, penetrando a Gerusalemme e distruggendola completamente, incluso il tempio, che non fu mai più ricostruito. Fu il momento più duro per Israele che perse quanto aveva di più caro.
Un episodio significativo di questa guerra, che è ricordata come “prima guerra giudaica”, fu la vicenda di Masada, la roccaforte zelota nel deserto intorno al Mar Morto. Per raccontarla ai ragazzi ho spesso utilizzato un servizio di Alberto Angela per Superquark disponibile su Youtube.

I romani, pur di espugnare la fortezza nella quale si erano rifugiati gli ultimi ribelli ebrei, la assediarono per due anni, costruendo una rampa alta più di 100 metri per permettere ai mezzi d’assedio di arrivare alla roccaforte. La notte prima della caduta di Masada gli ultimi ribelli rimasti misero in atto un suicidio collettivo per non cadere in mano al nemico. L’assedio di Masada resta una delle imprese militari più notevoli dell’antichità e insieme più inutili: due anni di assedio per prendere meno di un migliaio di ribelli, che si suicidò prima di essere sconfitto. Raccontare questa vicenda può essere occasione per riflettere con i ragazzi sul tema del conflitto e della contrapposizione, che se esasperata, diventa distruttiva e, in definitiva, non porta a nulla.
Un’altra grande rivolta scoppiò nel 132 d.C., sotto l’imperatore Adriano. Ci misero tre anni i romani a riprendere il controllo di Gerusalemme e nel 135, per risolvere il problema una volta per tutte, presero le misure più drastiche possibili: Gerusalemme fu spogliata di qualsiasi riferimento alla fede ebraica e agli ebrei fu impedito di rimanere in Giudea. La cacciata degli ebrei da Gerusalemme prende il nome di “diaspora”: da questo momento e fino a dopo la seconda guerra mondiale gli ebrei rimasero dispersi tra le nazioni. Un popolo senza terra.
Nella slide è inserita anche la presunta data della nascita di Gesù e spesso i ragazzi chiedono come mai sia collocata non nel fatidico anno zero, ma tra il 7 e il 4 a.C.. Va anzitutto precisato che l’anno zero non esiste. I calcoli per risalire all’anno di nascita di Cristo furono fatti nel VI secolo dal monaco Dionigi il Piccolo e a quell’epoca il concetto di “zero” non era ancora arrivato in Europa (si usavano i numeri romani, che non hanno lo zero): verrà importato dal mondo arabo solo all’inizio del XIII secolo. Per cui l’anno di nascita di Cristo ipotizzato da Dionigi il Piccolo era l’anno 1, immediatamente successiva all’anno – 1, corrispondente al 754 dalla fondazione di Roma, evento di riferimento per la datazione precedentemente in uso. A partire dalle testimonianza dei Vangeli tuttavia, la data di nascita di Gesù è stata portata indietro di qualche anno. Nei Vangeli si parla infatti di un censimento indetto da Quirinio, che storicamente avvenne nel 6 a.C.; inoltre gli evangelisti Luca e Matteo collocano la nascita di Gesù quando è ancora in vita Erode il grande, che morì nel 4 a.C.. Per questa ragione la data di nascita di Cristo verosimilmente è collocabile tra il 7 e il 4 a.C.

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