Parrocchia: le radici di una crisi (irreversibile?)

Provo a dare anch’io un contributo al dibattito scaturito, qui su Vino Nuovo, dagli articoli di Sergio Di Benedetto sulla crisi della parrocchia (li trovate qui e qui). In essi si mettono in luce sette crisi e alcune parole chiave, che mi paiono descrivere bene la situazione nella quale si ritrovano oggi le parrocchie. Provando a proseguire la riflessione, mi sembra che alla radice di tutto si possano riconoscere da un lato alcuni mutamenti del contesto sociale che sul versante ecclesiale non sono mai stati realmente affrontati e metabolizzati. Dall’altro alcune questioni irrisolte riguardanti il modo di pensare la vita cristiana comunitaria e, di conseguenza, il ruolo della parrocchia in riferimento ad essa.

Il primo mutamento mai davvero messo a tema riguarda il modo di vivere il territorio. La parrocchia intesa come “Chiesa che vive in mezzo alle case” (cfr Christifideles Laici, 26rischia di rifarsi a un’immagine di territorio che non esiste più. Oggi, soprattutto giovani e adulti, abitano più luoghi, peraltro suddivisi in reali e virtuali. La nostra casa, il nostro quartiere, il nostro paese o città, non sono più né gli unici né spesso i più significativi (in termini di quantità di tempo speso e di qualità di energie profuse) luoghi in cui viviamo. Passiamo molto più tempo con persone che stanno anche molto distanti di quanto ne spendiamo con chi ci abita accanto, che spesso non conosciamo neppure; ci sono strati di popolazione residenti nello stesso luogo che di fatto non si incontrano mai, e questo è un dato di cui non si può non tener conto. L’idea di parrocchia pensata come cura di uno specifico territorio rischia di scontrarsi con una realtà in cui chi risiede in un luogo spesso non lo abita e viceversa. Non è un caso che le iniziative parrocchiali che riescono a coinvolgere di più siano quelle rivolte ai bambini e agli anziani, le categorie di persone che vivono maggiormente riferendosi ancora a un territorio preciso. Ma chiaramente non possiamo pensare a una Chiesa accessibile solo a loro. Un ripensamento della parrocchia allora passa anzitutto dalla consapevolezza che il riferimento territoriale classico non è più in grado, da solo, di incidere. Potrebbe essere fecondo da questo punto di vista provare a pensare il territorio non più come uno spazio fisico ma come il luogo della quotidianità delle persone: non più una Chiesa che presidia un territorio ma una Chiesa capace di entrare nella quotidianità della gente, attraversando i diversi luoghi, reali e virtuali, nella quale essa si dispiega.

Un secondo mutamento mai metabolizzato è il passaggio dei cristiani da maggioranza a minoranza dentro la società. È un mutamento ancora in corso e per questo presenta tratti di ambiguità. Se da un lato infatti la partecipazione alla vita parrocchiale ordinaria scricchiola ovunque, dall’altro la richiesta dei Sacramenti, ad esempio, è spesso ancora alta. Stiamo vivendo il passaggio da un cristianesimo di convenzione a uno di convinzione, ma in alcuni ambiti la convenzione regge ancora. Siamo a metà del guado e questo genera fraintendimenti. Tanti nostri sforzi frustrati derivano dal mancato riconoscimento di questo mutamento in atto, dall’investire ancora troppe energie e aspettative nello star dietro alle richieste della convenzione, a qualcosa cioè che va inevitabilmente estinguendosi. Di contro facciamo ancora davvero fatica a immaginarci Chiesa di minoranza, Chiesa non più al centro di tante dinamiche e iniziative. Facciamo anzi gli scongiuri affinché non accada. Col rischio, anche stavolta, di cambiare tra i lamenti solo quando non avremo alternativa. Occorrerebbe invece fin da ora mandare avanti lo sguardo, provare a immaginare le nostre parrocchie tra vent’anni, quando non ci saranno più molti dei laici che oggi mandano avanti le Caritas parrocchiali e – anche economicamente – gran parte delle nostre iniziative, frequentano le messe feriali, i vespri della domenica pomeriggio, la catechesi per gli adulti; quando la percentuale di partecipazione alla messa della domenica sarà quella delle fasce giovanili di oggi, quando la crisi delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata avrà mostrato tutti i suoi effetti. Non per deprimerci ma per iniziare a chiederci cosa è necessario salvare e cosa lasciar andare di tutto quello che facciamo, su cosa è necessario già da oggi iniziare a investire, quali scelte anche dolorose non è più tempo di rimandare.

Ma come indicava Sergio, la crisi della parrocchia non riguarda solo una carenza di persone e un mutamento delle strutture e della società. Vi è in gioco, molto più in profondità, la domanda su cosa significhi essere cristiani oggi ed esserlo non da soli ma insieme, come comunità cristiana. Un tempo – quando nasce la parrocchia così come la conosciamo – la società, nei ritmi e negli usi, portava ancora iscritti i segni della fede. Fede e cultura andavano a braccetto, la società coincideva con la comunità cristiana. In questo contesto la parrocchia poteva limitarsi a nutrire la fede attraverso i Sacramenti e la catechesi, perché la vita cristiana comunitaria non finiva una volta usciti da Messa ma tutta la vita sociale era vita comunitaria cristiana. Oggi viviamo in un contesto in cui la cultura ha perso il legame con la fede ed è un’illusione pensare che si torni indietro. Oggi quando si esce dai cancelli parrocchiali, ci si ritrova spesso a vivere la propria fede da soli, singoli o famiglie, senza alcun sostegno della cultura, della comunità, della società. Il vero problema, irrisolto ormai da tempo, è allora identificare lo spazio e il tempo in cui vivere la comunità cristiana. La parrocchia, e di questo siamo consapevoli, non può più limitarsi ad offrire Sacramenti e catechesi, perché il contesto è mutato, ma il pezzo che manca facciamo davvero fatica a collocarlo. Cosa significa oggi vivere la comunità cristiana? È sufficiente partecipare alla Messa della domenica? Sì, ma ci si deve anche fermare sul sagrato a salutare? No, bisogna anche partecipare alla salamellata in oratorio? Vivere la comunità cristiana a ben vedere è qualcosa di molto più profondo: significa vivere insieme la fede. Come si fa oggi a vivere la fede insieme, non da soli, nel contesto in cui siamo, in un quotidiano che abita contemporaneamente più luoghi nei quali ci ritroviamo spesso soli ad avere uno sguardo credente, dentro una Chiesa che è ormai minoranza sociale e culturale? Vivere insieme la fede significa ascoltare la Parola, celebrare, festeggiare, ma anche custodire una qualità evangelica nelle relazioni; avere un occhio vigile condiviso che si fa prossimità verso chi è escluso, è nel bisogno, è diverso; un desiderio comunitario di andare ai crocicchi delle strade, che si fa pensiero, condivisione e azione corale; un’attenzione alla vita civile, che si fa voce, proposta comune, contributo nella logica del servizio; uno sguardo che raccoglie diverse prospettive, capace di discernimento e di rimettere tutto nelle mani di Dio Padre. Oggi di tutto questo riusciamo a vivere davvero pochissimo.

Sarà in grado la parrocchia di ripensarsi e reggere queste sfide o abbiamo bisogno di altro?

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Le nostre parrocchie sono un ambiente tossico?

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Girovagando tra i post su Facebook mi sono imbattuto in questa immagine che elenca alcuni sintomi di un ambiente di lavoro tossico. Per deformazione professionale, mi è venuto spontaneo provare ad applicarla alle nostre realtà parrocchiali. D’accordo la parrocchia non è (solo) un ambito lavorativo, è molto di più. È il luogo dove si lavora per rendere presente il Vangelo in quel pezzo di mondo. Per questo, mi viene da dire, a maggior ragione una parrocchia ha bisogno di essere un luogo in cui si sta bene e si lavora bene. Tanto più che portare il Vangelo non è un prodotto da vendere ma una vocazione che si realizza nella misura in cui è possibile riconosce una testimonianza credibile. Continua a leggere “Le nostre parrocchie sono un ambiente tossico?”

La vera Pasqua per le nostre comunità

“Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.” (Mt 16,25)

Inizio questo editoriale con questo breve passo del Vangelo di Matteo. Siamo nella settimana santa, tra poche ore inizieremo le celebrazioni del triduo pasquale. Queste parole, dette da Gesù proprio appena dopo aver annunciato per la prima volta ai sui discepoli che dovrà essere ucciso e risuscitare il terzo giorno (Mt 16,21), mi sembrano riassumere bene quello che stiamo per rivivere in questi giorni: la vicenda di un Dio che non si preoccupa di salvare la propria vita ma sceglie di perderla, di donarla. E noi sappiamo che il terzo giorno la troverà di nuovo.

Questo atteggiamento di Gesù mi interroga e mi provoca. Se da cristiani siamo chiamati ad avere Gesù come riferimento, a condividere il suo stesso modo di pensare e di agire, questo non preoccuparsi di salvare sé stessi accettando la morte deve diventare anche nostro. Deve diventare atteggiamento del nostro agire da cristiani nella Chiesa. Continua a leggere “La vera Pasqua per le nostre comunità”