La parabola del Padre misericordioso

La parabola del Padre misericordioso (o del figliol prodigo, nella denominazione più tradizionale) è inserita nel capitolo 15 del Vangelo di Luca, che si apre con questa scena.

1 Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola: 

(Lc 15,1-3)

Troviamo Gesù circondato dalla peggio gente, che accorre per ascoltarlo. E Gesù li accoglie. Noi siamo abituati a pensare che il Vangelo, la fede, sia cosa per gente “brava”. Nei Vangeli troviamo l’esatto opposto. I “bravi” sospettano e rifiutano Gesù, i peccatori, coloro che erano considerati distanti da Dio, si mettono in ascolto. Di fronte a questa scena farisei e scribi, si scandalizzano! Come è possibile che Gesù si rivolga ai pubblicani e alle prostitute? Per rispondere Gesù racconta due parabole: la parabola della pecora smarrita e quella del Padre misericordioso, sulla quale ci soffermiamo. La parabola inizia così:

11«Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 

(Lc 15,11-12)

I protagonisti della parabola sono un uomo e i suoi due figli. Quando nella Bibbia si parla di due fratelli (Caino e Abele, Isacco e Esaù…) normalmente sono sempre in lotta tra loro e il minore fa una figura migliore del maggiore. Questo racconto non fa eccezione.

Il figlio minore rivolge al Padre una domanda drammatica: “dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Chiedo sempre ai ragazzi di immaginare la faccia dei loro genitori se facessero loro una domanda del genere. Cosa sta chiedendo questo figlio? Di ricevere in anticipo la propria parte di eredità. Il problema è che l’eredità si riceve alla morte dei genitori. Attraverso questa domanda il figlio sta dicendo al Padre: tu per me sei già morto, è come se non esistessi. Che cosa rappresenta questo figlio fuor di metafora? Se il Padre rappresenta Dio, questo figlio rappresenta l’uomo che sceglie di vivere senza Dio, in piena autonomia: Dio per me non esiste. Sono i pubblicani e i peccatori che circondano Gesù mentre racconta la parabola.

Sorprendente la risposta del Padre. È annotata da Luca in mezza riga, ma non ha niente di scontato. Ripensate alla faccia dei vostri genitori prima di leggere: “Ed egli divise tra loro le sue sostanze”. Il Padre non fa una piega! Non si oppone in alcun modo alla scelta del figlio di vivere senza di lui, non cerca nemmeno di convincerlo. È quello che viviamo anche noi: se tu ti comporti male non è che Dio interviene impedendoti o pregandoti di non fare quello che hai in mente. Dio ti lascia libero, rispetta pienamente la tua libertà.

A questo punto diverse volte i ragazzi obbiettano che tutto questo non è vero, perché sì, Dio ci lascia liberi, ma poi, se non ci comportiamo come dice lui, ci manda all’inferno. È importante far cogliere ai ragazzi come l’inferno dentro la teologia cristiana non abbia una funzione punitiva, come invece spesso siamo portati a credere. La funzione dell’inferno è, paradossalmente, quella di affermare nel modo più radicale possibile la rilevanza della libertà umana: tu, se vuoi puoi, davvero scegliere di vivere la tua vita lontano da Dio, rifiutando Dio nel modo più radicale possibile: questo è ciò che l’inferno permette di affermare. Se l’inferno non ci fosse almeno come ipotesi, tu non saresti davvero libero di rifiutare Dio, perché in un modo o nell’altro alla fine arriveresti comunque a lui. L’ipotesi teologica dell’inferno, ossia della possibilità di rifiutare Dio eternamente, permette di affermare la piena e reale libertà umana.

13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». 20Si alzò e tornò da suo padre. 

(Lc 15,13-19)

Il figlio minore parte e, ci dice il racconto, spende tutto quello che ha in divertimenti, finché non ha più nulla ed è costretto a pascolare i porci per mantenersi. I maiali per la legge di Israele sono animali impuri. Questo giovane vive una vita a servizio di un animale impuro e vorrebbe addirittura mangiare il cibo di cui si nutre questo animale, ma non può fare nemmeno questo: dal punto di vista simbolico è la descrizione di una vita che più in basso di così non poteva finire. Ed è proprio quando tocca il fondo che il figlio si ricorda del Padre. E progetta di tornare a casa non più come figlio ma come servo. Emerge qui per la prima volta il tema centrale della parabola: quale tipologia di relazione vivere con Dio: siamo servi di Dio o siamo figli di Dio?

20Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». 22Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.

(Lc 15,20-24)

Rientra in scena il Padre, che avevamo lasciato sulla porta di casa alla partenza del figlio; lo ritroviamo ancora lì, quasi non si fosse mai spostato, quasi avesse passato tutto quel tempo sulla porta ad aspettare il ritorno del figlio. Lo scorge che è ancora lontano, e qui ritroviamo gli stessi due verbi che abbiamo visto riferiti al buon samaritano quando trova l’uomo malmenato dai briganti: lo vide e ne ebbe compassione. Sono i due verbi che i Vangeli usano per descrivere lo sguardo di Dio sull’uomo. Lo raggiunge, il figlio prova a recitare il discorso che si era preparato, ma il Padre non lo ascolta neanche: è suo figlio, non sarà mai suo servo! Riveste il figlio, gli rimette l’anello al dito (era l’anello di famiglia che serviva a firmare i documenti ufficiali, simile alla nostra firma in banca: il Padre ridà al figlio piena potestà sui suoi beni!) e fa uccidere il vitello grasso, che veniva lasciato ingrassare per le occasioni più importanti della vita famigliare come i fidanzamenti o i matrimoni. Il Padre prepara al figlio la festa più grande che si fosse mai vista.

Chiedo ai ragazzi di riflettere sulla reazione del Padre. Sono normalmente tutti concordi nel dire che è una reazione del tutto esagerata. D’accordo essere contenti per il ritorno del figlio, d’accordo non infierire su una persona che si trovava in difficoltà (anche se a ben vedere se l’era ampiamente cercata!). Ma ridare la potestà sui beni, uccidere il vitello grasso appare del tutto esagerato, al di là di ogni logica. E in effetti qui non ci troviamo di fronte a una logica umana, ci troviamo davanti alla logica di Dio. È Dio che non degna di uno sguardo il peccato e riaccoglie il figlio con un amore esagerato, impossibile. È uno degli aspetti centrali della fede cristiana: Dio vince ogni peccato con il suo amore. Nessun peccato, nessuna lontananza da Dio è tanto profonda da poter impedire l’amore di Dio per noi. Per questo Gesù sta con i peccatori, perché Dio non respinge chi è nel peccato; Dio lo accoglie e lo ama in un modo esagerato. Davvero Gesù ci salva dal peccato, rompe per sempre il muro di separazione tra Dio e l’uomo, perché nella sua vicenda ci rivela un Dio il cui amore spezza ogni argine, vince ogni resistenza: “né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” scriverà Paolo nella lettera ai Romani (Rm 8,38-39). Siamo solo noi che possiamo allontanarci da Dio, Dio è sempre e solo colui che ci accoglie.

25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». 31Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»».

(Lc 15,25-32)

Nell’ultima parte della parabola entra in scena il fratello maggiore; sente la musica che proviene dalla festa del fratello – fuor di metafora: si rende conto dell’amore esagerato che Dio rivolge al peccatore – e dice: non è giusto! Chi rappresenta questo figlio? Se il più piccolo rappresentava i peccatori che stavano ad ascoltare Gesù, nel più grande troviamo rappresentati i farisei e gli scribi che si scandalizzano.

Quando normalmente chiedo ai ragazzi cosa ne pensano della reazione di questo primo figlio, per la maggior parte rispondono: ha ragione! Mettiamoci nei suoi panni: ha sempre fatto tutto quello che il Padre gli ha chiesto, ha lavorato e faticato per lui senza ricevere niente in cambio; il fratello se l’è spassata divertendosi e, appena torna, il Padre gli organizza la festa più grande di sempre… Se non è un’ingiustizia questa!

Come dare torto a questo primo figlio? Perché il Padre si comporta in questo modo? Cosa motiva tutto questo? Chiedo ai ragazzi di soffermarsi sulla prima parte della frase che il fratello maggiore rivolge al Padre: “io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici”. A partire da questa frase cosa cogliamo della relazione che c’è tra questo figlio e il Padre? “Ti servo”, “Non ho mai disobbedito”, ” tu non mi hai mai dato…”: sono verbi che a ben vedere, si addicono più a una rapporto lavorativo, alla relazione tra un servo e il suo padrone che non a quella tra un Padre e un figlio: io lavoro per te e tu mi dai qualcosa in cambio. È quello stesso tipo di relazione che il figlio più piccolo aveva proposto al Padre in riparazione delle sue colpe (“trattami come uno dei tuoi servi”), ma che il Padre aveva rifiutato categoricamente. Questo è il problema del figlio maggiore: è sempre stato con il Padre ma vive con lui una relazione sbagliata. È convinto che l’amore del Padre sia qualcosa da guadagnare, da meritare; per questo se la prende con il fratello più piccolo: perché non si è meritato niente eppure riceve più di lui. Non comprende la logica del Padre, che è la logica dell’amore. L’amore non si merita, l’amore è si riceve soltanto in dono. Perché percepisce l’amore per il fratello come un’ingiustizia? Perché non ha mai compreso e goduto davvero dell’amore del Padre nonostante sia sempre stato con lui.

Per far comprendere meglio ciò che il fratello maggiore vive faccio questo esempio: la fede cristiana ci dice che se anche tu nella vita hai ammazzato, rubato, mentito più di chiunque altro, se in punto di morte chiedi perdono, il tuo peccato è perdonato e vai in paradiso. È l’esperienza del buon ladrone che troviamo raccontata nel Vangelo di Luca: era in croce a causa di tutte le sue malefatte, chiede a Gesù di accoglierlo nel regno e Gesù gli dice: oggi sarai con me nel paradiso (Lc 23,39-43). Di fronte a questo racconto ci assale normalmente un senso di ingiustizia. Ne ha combinate di tutti i colori e ottiene anche la salvezza: dov’è la giustizia di Dio? La moglie, i figli di quelli che quest’uomo ha ucciso cosa avrebbero detto? Il problema all’origine di tutte queste considerazioni è uno: noi siamo sostanzialmente convinti che chi vive “come gli pare”, senza sforzarsi di essere buono e giusto, in definitiva ha una vita migliore della nostra. Noi ci impegniamo, fatichiamo e loro se la spassano. Gesù ci dice esattamente l’opposto: chi vive tutta la vita distante dal bene, dalla giustizia e quindi da Dio, non vive meglio degli altri, al contrario, ci ha perso! Come il primo figlio, che pensava di guadagnare la felicità allontanandosi dal Padre ma si è ritrovato a pascolare i porci, sprofondando nell’inferno. L’inferno, per chi vive lontano dall’amore di Dio, è già qui! È vivere dentro la relazione d’amore con Dio, come figli amati dal Padre – e non come servi di fronte a un padrone – che rende la vita piena e feconda. È questo che non capisce il figlio maggiore. La ricompensa non è dopo, la ricompensa è già adesso, e se ne può godere vivendo nell’amore del Padre. Si rende evidente qui quello che abbiamo detto già in altre occasioni: la vita cristiana è offerta come possibilità di un’esistenza autenticamente felice. Ha senso solo se scelta con questa consapevolezza.

Comprendiamo allora come la parabola del Padre misericordioso non sia propriamente una parabola sul tema perdono, come invece normalmente crediamo. È invece una parabola che descrive due modi sbagliati di vivere la nostra relazione con Dio. Quella di chi sceglie una vita del tutto sganciata da Dio (il figlio minore) e quella di chi vive la relazione con Dio come quella di un servo col proprio padrone. La fede cristiana offre la possibilità di vivere come figli amati dal Padre. Un Padre che ci ama infinitamente, in un modo esagerato, con un amore che non conosce ostacoli e confini.

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