Il dramma della libertà

1) Un popolo in crisi di astinenza

Finalmente Israele è libero! Salvato dall’Egitto “con mano potente e braccio teso”, è stato spezzato il giogo della schiavitù che lo opprimeva! Dopo i festeggiamenti al ritmo del tamburello di Miriam (Es 15), dopo la grande lode a Dio e a Mosè, suo strumento di salvezza, dopo un ultimo sguardo al Mar Rosso, teatro del più grande prodigio di sempre… Israele si ritrova in un deserto!

Un deserto. Un luogo impervio, in cui non c’è nulla. Niente da mangiare, niente da bere… Israele è libero, ma deve cavarsela da solo contro l’arsura del sole la sete, la fame… È il dramma della libertà. La libertà è qualcosa che tutti desideriamo, che vorremmo avere sempre di più. Ma la libertà, quella vera, è impegnativa. È molto più facile appaltare ad altri la nostra libertà: come era abituato a fare Israele in Egitto. Tutto il tema delle dipendenze nasce da qui e tutti sappiamo quanto è difficile uscirvi, riguadagnando la propria libertà. Israele era abituato ad eseguire ordini. Ora si ritrova libero, ma senza la possibilità di scegliere nulla. E si chiede cosa farsene di quella libertà conquistata… Non è che forse stavamo meglio prima?

1Levarono le tende da Elìm e tutta la comunità degli Israeliti arrivò al deserto di Sin, che si trova tra Elìm e il Sinai, il quindici del secondo mese dopo la loro uscita dalla terra d'Egitto. 2Nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. 3Gli Israeliti dissero loro: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra d'Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine».

(Es 16,1-3)

Siamo al capitolo 16 del libro dell’Esodo, nel capitolo precedente Israele ha festeggiato la libertà conquistata con inni e danze. Basta un niente, è sufficiente mettersi in cammino in quel deserto per far rimpiangere al popolo la schiavitù in Egitto. Dove erano schiavi, ma c’era da mangiare, erano costretti a lavorare, ma c’era da bere. Ora manca tutto!

Per usare un’immagine attuale potremmo dire che Israele nel deserto è un popolo in crisi di astinenza. Abituato ad essere nutrito nella sua schiavitù, si ritrova a non essere più in grado di nutrirsi da sé. Non può farlo. È nel deserto dell’astinenza. Tra un non più (la schiavitù) e un non ancora (una libertà piena e responsabile). Quella libertà che pensava di aver guadagnato una volta per sempre, Israele si accorge che è faticosa; di come fosse più facile essere schiavo, di come abbia bisogno di essere rieducato, di imparare ad essere libero.

Si può qui fermarsi a riflettere coi ragazzi su questo tema, così importante, chiedendo loro se e come hanno vissuto questa fatica nell’essere liberi, che vive il popolo di Israele nel deserto. In quali situazioni. Come l’hanno affrontata. La Bibbia è un testo antico di millenni, ma parla dell’esperienza di ogni uomo.

2) Un Dio che si prende cura del popolo

Cosa farà Dio di fronte all’insolenza di questo popolo, per il quale ha fatto immensi prodigi, mettendo in campo tutto quello che poteva per strapparlo alla schiavitù e ridargli la libertà? Erano stati proprio loro, gli israeliti, a levare il loro grido a Dio e chiedergli di intervenire. E ora? Già rimpiangono i loro carcerieri e vorrebbero tornare indietro. Come si ripete spesso nella Bibbia, Israele è “un popolo di dura cervice”, ma è così ognuno di noi: ci lamentiamo del presente e spostiamo lo sguardo verso un immaginario futuro migliore o verso un fantomatico passato in cui, ora ci sembra, stavamo meglio. La sfida della libertà è prendere sul serio il presente.

Come reagisce Dio al lamento del popolo? Avrebbe avuto tutti i diritti di adirarsi, di accusarlo di ingratitudine e memoria corta! Invece…

11Il Signore disse a Mosè: 12"Ho inteso la mormorazione degli Israeliti. Parla loro così: "Al tramonto mangerete carne e alla mattina vi sazierete di pane; saprete che io sono il Signore, vostro Dio". 13La sera le quaglie salirono e coprirono l'accampamento; al mattino c'era uno strato di rugiada intorno all'accampamento. 14Quando lo strato di rugiada svanì, ecco, sulla superficie del deserto c'era una cosa fine e granulosa, minuta come è la brina sulla terra. 15Gli Israeliti la videro e si dissero l'un l'altro: "Che cos'è?", perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: "È il pane che il Signore vi ha dato in cibo. 16Ecco che cosa comanda il Signore: "Raccoglietene quanto ciascuno può mangiarne, un omer a testa, secondo il numero delle persone che sono con voi. Ne prenderete ciascuno per quelli della propria tenda"" [...] 35Gli Israeliti mangiarono la manna per quarant'anni, fino al loro arrivo in una terra abitata: mangiarono la manna finché non furono arrivati ai confini della terra di Canaan. 

(Es 16,11-16.35)

Di fronte al lamento di Israele Dio non si adira… continua a prendersi cura del popolo procurando a Israele il cibo nel deserto: le quaglie e la manna, quella sostanza “fine e granulosa” che prende il nome dalla domanda che gli israeliti si rivolgono quando la vedono: man hu? (da cui “manna”): che cos’è?

Dio conosce il suo popolo, conosce il cuore dell’uomo, lo sa che è altalenante e incostante, che un giorno chiede una cosa e il giorno dopo il contrario. Sa che siamo sballottati dalle necessità della vita, che rischiano sempre di prendere il sopravvento su ogni ideale e ogni coerenza. Ma Dio non ha paura della nostra fragilità. Dio la accompagna, è paziente, non forza la mano, non accelera i tempi. Dio continua a fare l’unica cosa che fa sempre: donare. Dona al popolo il nutrimento nel deserto. Certo, Israele si trova in un luogo impervio, ma Dio non gli lascia mancare nulla. Per quarant’anni, fino all’arrivo di Israele nella terra della promessa, Dio farà piovere la manna dal cielo per nutrire il suo popolo. È il dono di Dio che permetterà al popolo di attraversare il deserto e di giungere a possedere la terra.

Il viaggio di Israele nel deserto è un viaggio alla conquista della libertà. È il viaggio di chi passa dalla schiavitù, dalla dipendenza, a una libertà vera, matura. Questo viaggio, faticoso e sfibrante, nessuno può compierlo da solo. Serve il nutrimento, la cura, la pazienza di qualcuno che ci ama e ci sostiene. Come Dio con il suo popolo.

3) Il dono della legge

Giunti al monte Sinai, Dio comanda a Mosè di salire fino alla cima, dove gli consegnerà i dieci comandamenti, facendo così dono a Israele della legge.

Nella prospettiva del viaggio di Israele alla conquista della libertà il dono della legge rappresenta il passo decisivo verso una libertà finalmente autentica. Sembrerebbe questa una contraddizione: nell’idea che spesso abbiamo di libertà questa coincide con l’assenza di qualsiasi vincolo: sono libero se posso fare quello che voglio, indipendentemente da qualsiasi legge. Questa idea di libertà però è decisamente ingenua. Una libertà libera da qualsiasi vincolo semplicemente non esiste. Come nel calcio e in qualsiasi altro sport, è il rispetto delle regole che rende possibile giocare. Senza regole, semplicemente non esiste il gioco. Quello che possiamo scegliere è a quali leggi obbedire. Ci sono due tipi di leggi: quelle che tolgono libertà e quelle che la preservano, la ampliano donando nuovi spazi di libertà alla vita. Le dipendenze funzionano come leggi che tolgono la libertà. Quale legge regola esperienze come il fumo, le droghe, la pornografia, il gioco d’azzardo, finanche un uso deviato dei social network o dei videogiochi? Una legge che funziona offrendo occasioni di godimento – scariche di dopamina – in cambio della tua dipendenza da esse: le dipendenze funzionano legando a sé, in un vincolo sempre più stretto dal quale è poi molto complesso liberarsi. Sono regolate da una legge che toglie libertà.
La legge che Dio dona a Israele è una legge diversa. Una legge che preserva la libertà. Una legge che funziona come le regole di un gioco, grazie alle quali puoi giocare, puoi esprimere il tuo talento, puoi essere libero davvero. Per questo la legge per Israele è un dono: perché è una legge che non ostacola la libertà ma la preserva, la moltiplica.

Questo stesso concetto la Bibbia lo esprime in un’altra forma, parlando degli idoli. Il primo comandamento della legge di Israele è: “non avrai altro Dio di fronte a me”. Nel contesto in cui si trovava Israele il popolo era costantemente tentato di rivolgersi a altre divinità. Ma questa stessa dinamica è vera anche per noi oggi: chi/cosa servi nella tua vita? Di chi, di cosa dei al servizio? Il potere, il successo, la ricchezza, la fama, il piacere, perfino sé stessi, possono diventare tutti idoli che in modo più o meno consapevole diventano signori della nostra vita. Ma gli idoli tolgono libertà. Dio invece è colui che dona la libertà. La possibilità della fede in Dio, di fare di Dio l’unico Signore della nostra vita è la possibilità di mettere al centro dell’esistenza qualcuno che preserva la tua libertà e la moltiplica. Funziona come nelle relazioni: alcune relazioni ci tolgono libertà, ci rendono dipendenti e schiavi. Altre relazioni, quelle più vere e autentiche, moltiplicano la nostra libertà: quanto ci si sente liberi nell’abbraccio autentico di un amico, di un genitore, di qualcuno che ci vuole bene, eppure, a ben vedere, in quel momento siamo stretti e quasi impossibilitati a muoverci! Ma ci sentiamo liberi come non mai. Dio, il Dio vero, è il Dio che moltiplica la libertà: rende liberi davvero.

Per la fede di Israele la legge è soprattutto il modo più importante attraverso il quale compiere la volontà di Dio. È ciò che regola la relazione tra Dio e il suo popolo. Qui è importante far riflettere i ragazzi sulla distinzione tra peccato e reato, magari provocandoli chiedendo loro di esprimere le differenze tra i due. Il reato è semplicemente infrangere una regola. Quando passo col semaforo rosso, certo, metto in pericolo me e altre persone, ma tecnicamente quello che mi viene contestato è non aver rispettato il codice della strada, che non ho idea da chi sia stato scritto – è impersonale – e non è nemmeno importante saperlo: ciò che conta è quello che prescrive. Il peccato invece non è semplicemente infrangere una regola che qualcuno che nemmeno conosco ha stabilito. Il peccato ha invece più la fisionomia del tradimento: tradire una relazione. Ogni relazione ha le sue regole, per quanto spesso implicite. Se un mio amico mi rivela un segreto e io vado a dirlo in giro, quella amicizia si rompe. Se tradisco il mio fidanzato o la mia fidanzata, quella relazione finisce. La legge che Dio dà a Israele regola la relazione tra Dio e il suo popolo. Trasgredire questa legge non è semplicemente infrangere una regola, ma tradire la relazione con Dio: questo è il peccato.

Leggo normalmente in classe i dieci comandamenti nella versione del Deuteronomio, più ampia e completa.

6«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla condizione servile.
7Non avrai altri dèi di fronte a me. 8Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra né di quanto è nelle acque sotto la terra. 9Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, 10ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.
11Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano.
12Osserva il giorno del sabato per santificarlo, come il Signore, tuo Dio, ti ha comandato. 13Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 14ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. 15Ricòrdati che sei stato schiavo nella terra d'Egitto e che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore, tuo Dio, ti ordina di osservare il giorno del sabato.
16Onora tuo padre e tua madre, come il Signore, tuo Dio, ti ha comandato, perché si prolunghino i tuoi giorni e tu sia felice nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà.
17Non ucciderai.
18Non commetterai adulterio.
19Non ruberai.
20Non pronuncerai testimonianza menzognera contro il tuo prossimo.
21Non desidererai la moglie del tuo prossimo. Non bramerai la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo».

(Dt 5,6-21)

Il decalogo è diviso in due parti: i primi tre comandamenti, che riguardano la relazione tra il popolo e Dio – molto più sviluppati degli altri – e gli ultimi sette, che riguardano invece la relazione tra gli uomini. Qui c’è un primo aspetto da sottolineare tipico dell’ebraismo e anche del cristianesimo: ciò che regola la relazione tra Dio e il suo popolo non riguarda solo riti, liturgie, feste da rispettare, non riguarda solo azioni che l’uomo deve fare noi confronti di Dio, ma riguarda anche il modo di vivere la relazione tra le persone: “Se uno dice: «Io amo Dio» e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” espliciterà l’evangelista Giovanni nella prima delle sue tre lettere che troviamo nel Nuovo Testamento: è esattamente il motivo per il quale Dio dà gli ultimi sette comandamenti oltre ai primi tre.

Nel commentare i comandamenti sottolineo anzitutto la differenza che c’è tra i comandamenti originali e il loro uso in senso estensivo, normalmente proposto in ambito catechistico: “osserva il giorno di sabato per santificarlo” è stato esteso in “ricordati di santificare le feste”; “non commetterai adulterio”, che di per sé interdice solo il tradimento dentro una relazione matrimoniale, è diventato “non commettere atti impuri”, estendendone il significato a tutti i peccati inerenti la sfera sessuale; “non pronuncerai testimonianza menzognera contro il tuo prossimo”, che di per sé riguarda la falsa testimonianza in ambito giudiziario, è stato ampliato fino a comprendere qualsiasi tipo di menzogna. Far notare questo è utile a contestualizzare e far comprendere il senso originario dei comandamenti, che sono molto precisi e, soprattutto, sono per persone adulte, mentre spesso la concezione che i ragazzi hanno è molto infantile a questo riguardo: è una banalizzazione ritenere che il terzo comandamento prescriva di andare a messa tutte le domeniche e l’ottavo di “non dire le bugie”, soprattutto se detto da ragazzi di prima superiore, non più dei bambini.

Il primo comandamento si apre con quella che potremmo definire una “presentazione” di Dio, che anzitutto fa fare memoria a Israele di quello che ha vissuto, di ciò che Dio ha fatto per lui: la legge non è data in modo impersonale, è la legga data dal Dio che ha liberato Israele dalla schiavitù. È una legge che libera. È una legge che rientra nel contesto di dono che caratterizza la relazione tra Dio e il suo popolo, una legge che regola la relazione tra Dio e il suo popolo.

Nel primo comandamento troviamo esplicitato quanto detto prima riguardo gli idoli. Il comando riguarda anche il non farsi immagini di Dio: una caratteristica dell’ebraismo è l’assenza di rappresentazioni di Dio. Dio è l’altissimo, nessuna immagine può ambire a rappresentarlo, qualsiasi tentativo di rappresentazione sarebbe una profanazione (è anche un modo per marcare la differenza tra il Dio di Israele e le divinità dei popoli circostanti, gli idoli, normalmente rappresentati da statue e sculture a cui venivano offerti sacrifici). In questo troviamo una differenza tra ebraismo e cristianesimo: noi siamo abituati ai dipinti, agli affreschi, alle sculture che riempiono le chiese. La differenza fondamentale è che per i cristiani Dio si è fatto uomo, si è reso conoscibile camminando per le strade del mondo: Dio si è reso rappresentabile attraverso il volto di Gesù di Nazareth.

Spesso i ragazzi mettono in luce l’affermazione di Dio “che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione”. Qui va messo in luce come, è vero, l’idea del Dio punitore nell’Antico Testamento è presente (non più nella prospettiva cristiana), ma qui l’accento è posto, da chi ha scritto il testo, sulla sproporzione tra le tre/quattro generazioni oggetto di punizione e le mille generazioni cui Dio dimostra la sua bontà: l’idea del Dio punitore è funzionale a mostrare la sproporzione del suo amore! Il Dio di Israele è anzitutto il Dio che ama e benedice.

Riguardo il secondo comandamento si può ricordare quanto si diceva in apertura del modulo sulla storia di Israele riguardo il nome di Dio, JHWH. Per Israele pronunciare il nome di Dio equivale ad avanzare la pretesa di conoscerlo, mentre Dio resta l’altissimo inconoscibile. Per questo nella Bibbia ebraica il nome di Dio, JHWH, è scritto senza vocali, per impedire che venga pronunciato.

Il terzo comandamento riguarda il giorno del riposo per Israele, il sabato, che proprio per il fatto di essere inserito nel decalogo acquista il valore di norma assoluta per il popolo. Nel giorno di sabato gli ebrei non possono svolgere alcun tipo di lavoro. Non è un caso se le più accese contestazioni a Gesù riguarderanno proprio la sua singolare interpretazione del sabato, non più come semplice regola da rispettare. Singolarmente in questo passo della Torah anche ciò che motiva il riposo del sabato è ricondotto alla liberazione dall’Egitto e non ai sette giorni della creazione, come invece nella versione di Esodo e nella maggior parte delle altre testimonianze bibliche.

Da ultimo si può sottolineare il senso del nono e decimo comandamento, che non riguardano delle azioni, come invece gli altri, ma, potremmo dire, delle intenzioni. Vietano infatti di desiderare la donna del prossimo e i possedimenti del prossimo (tra i quali, per la mentalità dell’epoca, rientravano anche gli schiavi). Perché, se c’erano già due comandamenti che vietavano l’adulterio e il furto, Dio inserisce questi due ultimi comandamenti che riguardano gli stessi ambiti? Si vuole qui sottolineare come la relazione con Dio non riguardi solo l’esteriorità dell’uomo, ma l’uomo in tutto il suo essere. Ogni peccato prima di essere commesso è pensato, meditato, bramato nel cuore. È già lì il peccato: avere un cuore che va in una direzione diversa da quanto la relazione con Dio chiede, avere un cuore che desidera trasgredire questa relazione. Anche se l’azione magari non verrà mai messa in atto, il desiderio sbagliato del cuore dice già lontananza dalla relazione con Dio, dice già una relazione che ha perso la sua autenticità.

4) La sintesi della fede di Israele

Nel capitolo 6 del libro del Deuteronomio, immediatamente successivo ai dieci comandamenti, troviamo il testo che più di ogni altro sintetizza la fede di Israele: lo Shemà Israel, “Ascolta Israele”.

1 Questi sono i comandi, le leggi e le norme che il Signore, vostro Dio, ha ordinato di insegnarvi, perché li mettiate in pratica nella terra in cui state per entrare per prenderne possesso; 2perché tu tema il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni. 3Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto.
4Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore5Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze6Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. 7Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. 8Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi 9e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte.

(Dt 6,1-9)

È una testo che gli ebrei recitano quotidianamente nella preghiera. In esso troviamo anzitutto il senso autentico della legge data da Dio ad Israele: la legge non è contro l’uomo ma per l’uomo, è per la felicità e la fecondità del popolo. Esprime poi la fede nell’unicità di Dio e il comando che riassume tutti gli altri: il comandamento dell’amore. Chiede infine di tenere sempre nella mente e nel cuore, di vivere in ogni momento e in ogni luogo la relazione con Dio, trasmettendola di generazione in generazione: la relazione con Dio non è qualcosa di superfluo o indifferente nella vita, non è un comando esteriore da rispettare, è una compagna di viaggio che irrora la vita e la accompagna. Come vedremo nella sezione dedicata alla fede e alla religione ebraica, gli ebrei prendono talmente sul serio il comando di legarsi alla mano e tra gli occhi la legge di Dio e di scriverla sugli stipiti delle porte, che durante la preghiera si legano sulle braccia e sulla fronte dei piccoli astucci, detti tefillim, contenenti questo passo della Torah, e sulle porte delle case appendono delle piccole scatoline, dette mezuzah, anch’esse contenenti lo Schemà Israel.

Il popolo di Israele crede in un Dio che lo libera. La legge è il dono più grande attraverso il quale l’uomo può rimanere libero, ancora oggi.

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